Da poco uscito per Partisan, Cry è l’atteso secondo disco dei Cigarettes After Sex, uno dei progetti più interessanti di questi anni.
Il secondo disco, si dice sempre in questi casi, è molto difficile. Le aspettative si alzano e il rischio a cui si va incontro è quello di sbagliare in ogni caso. Se le carte vengono sparigliate l’ascoltatore sarà destabilizzato. Se, al contrario, si resta troppo fedeli alla propria cifra si rischia di scatenare il disinteresse.
I Cigarettes After Sex, con Cry, scelgono la seconda via.
Ma vediamo di fare chiarezza. Le tracce di Cry sono state pensate e scritte in una villa sull’isola di Maiorca mentre il mondo conosceva il loro primo disco. Non deve quindi sorprendere troppo che le atmosfere siano praticamente indistinguibili da quelle del primo lavoro. Greg Gonzalez – frontman da cui ti aspetteresti di tutto tranne che venga dal Texas – ha parlato di Cry come un lavoro cinematografico. Le canzoni sono come frammenti di film, eppure quello che convince meno sono proprio i testi.
Siamo davanti a liriche che parlano principalmente di sesso e amore fin troppo patinato.
Minimali ma non sempre nell’accezione positiva; dimmi che è amore, dimmi che è reale. Toccami con un bacio, sentimi sulle labbra (Heavenly), oppure Mi fai pensare a un temporale sulla spiaggia (You’re the Only Good Thing In My Life) – sono parole fin troppo banali. E se nel primo disco venivano alla mente le immagini sofisticate dei quadri di Vettriano, qui siamo più di fronte alle immagini patinate di qualche serie teen alla Baby o Elite.
A salvare questo sophomore, la parte musicale.
Come nel precedente lavoro siamo alla presenza di un corpus di tracce quasi indistinguibili l’una dall’altra. E, attenzione, la cosa non deve essere intesa in senso negativo. Chi scrive ha l’abitudine di ascoltare i lavori da recensire passeggiando per la città con gli auricolari. Ascoltare i Cigarettes After Sex ha qualcosa di catartico e taumaturgico assieme.
Le immagini della città, fatte di persone in preda a una fretta dissennata e dominate da rabbia repressa, paiono così quasi rallentare.
Le figure che appaiono ai nostri occhi sembrano galleggiare come in un quadro di Chagall. Forse per questo lo chiamano dream pop. Eppure anche qui non è tutto oro quel che riluce. Al netto di pezzi memorabili come Heavenly, Hentai e Cry, altri sembrano outtake o scarti dell’album precedente.
La ricetta è sempre quella e i riferimenti – Beach House, Mazzy Star e Cocteau Twins – anche.
Cry è emblematica in questo senso: un bordone di synth e un basso che cerca insistentemente un giro melodico. Improvvisamente entrano la batteria – delicata – e un arpeggio di chitarra elettrica riverberata oltremisura. Ad alimentare l’incanto la voce di Gonzales, androgina come sempre – alla loro comparsa scoprii dopo settimane che a cantare non era una sofisticata dark lady – e forse una delle più intonate che si siano mai sentite. La produzione mette la vocalità talmente in risalto da farci apprezzare ogni minima increspatura.
Va da sé che un mix così suadente ma anche ripetitivo esiga grandi melodie per non annoiare.
Ed è qui che Cry scricchiola. Al di là delle tracce citate non sempre i pezzi paiono decollare a dovere, rimanendo su atmosfere fin troppo accennate per conquistare del tutto.
Leggendo alcune reazioni saltano agli occhi stroncature eccessive, quasi rancorose, per quello che è comunque un buon disco.
Certo, manca l’effetto sorpresa dell’esordio, ma non potrebbe essere altrimenti. Ma quanto al fatto che i CAS suonino sempre uguali a loro stessi, non è detto che sia un difetto. Peggio sarebbe stato forse voler arricchire la ricetta con ingredienti poco digeribili, giusto per variare il gusto e dare una stucchevole sensazione di novità.
Insomma, chi ha apprezzato il primo lavoro e aspettava l’ideale prosecuzione, potrà dirsi contento. Chi si aspettava grandi rivoluzioni è invitato a ripassare al prossimo giro.
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