Discorsi Scomodi: quella “noiosa” musica italiana

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Niente da fare, la musica italiana, ormai, non stupisce più. Sfido chiunque a dimostrarmi il contrario.
Per musica italiana, chiaramente, non mi riferisco unicamente al mondo del cantautorato/mainstream in lingua ma a tutto ciò che nasce, cresce (e poi non corre) sul suolo italico, da gente italica (e non, non stiamo qui a pettinare i baffi ai sovranisti).

In un modo o nell’altro, purtroppo, tutto quello che nasce di nuovo in seno allo stivale, o muore prima di evolversi o campa abbastanza dal divenire tremendamente noioso e privo di un qualunque contenuto.

Pochi, pochissimi, nella musica italiana, gli esempi di arte vera, arte buona, in grado di costruirsi una nicchietta in quei territori dove gli ascolti musicali sono più di una decina di migliaia.

Mi viene in mente, a titolo di ciò, il caro Niccolò Fabi, recentemente autore di una perla di rara bellezza chiamata Tradizione e Tradimento. Mi viene in mente l’ormai immortale e imperituro Caparezza (che in Prisoner 709, non me ne vogliate, qualche colpo l’ha perso). Mi vengono in mente anche personalità un poco più di “primo pelo” come i rapper Rancore e Murubutu, due buchi neri supermassicci di bellezza artistica posizionati in una galassia di meteore frantumate (e frantumanti i non vi dico cosa).

In molti, sicuramente, sono i musicisti di qualità in Italia. Forse sono anche più della media internazionale, chi lo sa. Non abbiamo però modo di saperlo. Il musicista italiano di fatto è un poco come il gatto di Shrodinger. Finché non la apri non sai se sarà uno scandalo inerme o qualcosa di veramente valido. Il problema, qui, è che non riusciamo nemmeno ad arrivare alla scatola.

Mi spiego meglio. Facciamo, in primis, atto di fede del fatto che all’estero, a livello di possibilità offerte dall’ambiente, le cose siano leggermente migliori.

Non si spiegherebbero, altrimenti, le ondate di musicisti sommariamente interessanti più o meno di nicchia che giungono dall’oltre confine. Vogliamo veramente raccontarci la barzelletta del “eh, tanto gli italiani sono tutte pippe?”. Stronzate. In primis perché di musicisti validi o potenzialmente tali ne conosco a pacchi personalmente. In secundis perché non ho alcuna voglia di darmi della pippa da solo. Mi basta l’autocommiserazione al risveglio/serale per abbassarmi le endorfine. Ergo, al momento, possiamo anche sorvolare.

Fatto “auto da fè” (per citare Montale) che anche l’Italia sia ricolma di musicisti di livello, per quale motivo, qualunque sia il nostro genere di riferimento, qualunque cosa nostrana giunge alle nostre orecchie da una dimensione semi conosciuta non fa altro, nella stragrande maggioranza dei casi, che ispirare profondi sbadigli e voglia di darsi al taglia e cucito?

Triste dirlo, ma la musica italiana (e il musicista) sta morendo

Riflettiamoci un attimo. Pensiamo a band come i Lacuna Coil, gruppi metal ma Italiani, molto bravi ad esportarsi altrove e che proprio in quell’altrove hanno trovato le loro fortune. Riuscite a farvi venire in mente uno o più nomi di band di ambito similare in grado di avere una simile risonanza? Sinceramente no.

Poche sono le band che conosco nate in Italia e comunque in grado di presentare al pubblico internazionale e non musica di qualità

Vedasi, per esempio, i Kingcrow del mio amico Diego Cafolla (so che leggerai e che avrai tanto da ridire, ma ti voglio bene lo stesso) che dalla ridente Anguillara Sabazia sono riusciti con tempo e pazienza a sdoganare e dare qualche sana bottarella al panorama progressive, rimanendo comunque ancora troppo di nicchia. Simile anche la situazione dei Furor Gallico, band di pregevole fattura che per racimolare un briciolo di fortuna ha dovuto appoggiarsi più al mercato estero che a quello sotto casa.

Nessuna delle precedentemente citate band, però, ha avuto un successo tale (cosa che mi auguro per il prossimo futuro) da poterle definire come un reale prodotto di export a timbro italico. Nemmeno in Italia, a dirla tutta, hanno ricevuto una risonanza pari al meritato.

Non dimentichiamoci tra l’altro che il nostro “export” grosso, al momento, porta il nome de “Il Volo”. A voi la scelta se ridere o piangere.

Detto ciò, come noto è, in tutto il mondo, le aziende investono lì dove sanno di poter vendere, come è anche giusto che sia. L’industria discografica non fa e non può fare, purtroppo, a meno di questo ragionamento. Ciò è anche colpa del concetto di “rock star”, nato negli anni 60/70 e che ha fatto rendere conto allo spilorcio e avido essere umano che anche con la musica poteva alzare camionate di soldi, ma questa è un’altra storia.

Insomma, l’industria discografica segue ciò che è facilmente vendibile e, purtroppo, a definire la vendibilità di un prodotto è il compratore che lo acquista

Se un giorno, tutto di botto, decidessimo che dell’indie non ce ne frega più niente e smettessimo di comprarlo state tranquilli che anche Calcutta sarebbe costretto a iniziare a fare trap per non dover vendere caldarroste in centro a Bologna o a Piazza del Popolo (quella di Latina, sia chiaro, non quella di Roma).

Definito tale concetto, meno scontato di quello che molti potrebbero pensare, mi sembra ovvio e naturale che l’entità contro cui puntare il dito per la sempre più scarsa quantità di musica interessante sul suolo italico sia proprio il pubblico.

E già, volevate l’invettiva contro le case discografiche, contro i musicisti commerciali, contro i localari e contro i talent vero?

Come pensare, in fondo, che chi non fa musica possa essere parte in causa di un fenomeno musicale? Purtroppo, e sottolineo purtroppo, è proprio così. In quei tempi precedentemente citati dove la musica divenne indecente bene di guadagno, i Beatles riempivano le arene e Roger Waters concepiva “The Wall”, il pubblico assunse il ruolo di ago della bilancia.

Perché le case discografiche dovrebbero investire sulle creazioni originali di nuovi musicisti che, senza appoggiarsi alla semplicità del facilmente propinabile, cercano qualcosa di nuovo, che faccia progredire il loro essere artisti e l’arte in sé? Un’operazione non sense visto che il pubblico del nuovo millennio non ricerca più arte ma quasi esclusivamente blando intrattenimento.

Perché, a fronte di ciò, l’artista dovrebbe continuare a cercare di fare qualcosa di bello, di nuovo, di realmente valido se, tanto, nessuno sarà mai disposto a investire su di lui, lasciando quindi cadere tutti i suoi sforzi nel nulla cosmico?

Così il poter fare della musica è divenuto, tristemente, un lusso per pochi

Quei pochi che hanno un portafogli che glielo possa consentire, che sia grazie a un buon ceto famigliare o grazie al proprio sano e meritato lavoro. Quei molti, invece, che non possono permettersi grandi investimenti, restano e resteranno fuori, indipendentemente dal loro valore, dalla loro qualità, da ciò che avrebbero potuto o meno dare al mondo musicale.

Tutto perché qualcuno, in quel pubblico assolutamente pigro e asettico della musica italiana, non ha avuto voglia di andare a comprarsi un album, di andare a scoprire qualche nuovo artista in una sperduta birreria in centro città o perché ha fieramente crackato Spotify, magari vantandosene anche con gli amici.

Si è persa, e non poco, la voglia di scoprire la musica italiana in quanto arte, svelandone quindi tutte le sue potenziali forme alla ricerca di qualcosa che possa essere stimolante

Si è perso il gusto dell’ascolto, quello vero, quello critico, quello appassionato. Così, mentre il pubblico si impigrisce chiedendo sempre meno, le case discografiche decidono di girare i tacchi e rifarsi su ciò che è più facile da piazzare tramite talent, televisioni, pubblicità, creando fenomeni destinati a durare poco o mediamente poco, che siano in grado di raccogliere grandi consensi in breve tempo senza però poi, davvero, lasciare una reale traccia.

Così muore la ricerca e l’innovazione musicale. Così l’offerta diventa sempre più tediosa e prevedibile. Insomma, inutile andare oltre. La principale genesi della “noiosa musica italiana” è da ricercare nel pubblico. Non è la mancanza di un’offerta valida a tagliarci la testa, ma la mancanza di orecchie giuste che possano, in qualche modo, direzionare il mercato in qualcosa che non sia la sola e semplice asettica moda.

Impossibile poter produrre qualcosa di qualitativamente valido in un sistema come quello italiano che, non solo è tremendamente drogato e dipendente di “talent” e simili ma che, ancor di più, richiede ingenti investimenti in un campo dove già di per se il solo poter suonare ogni tanto diventa dispendioso. E purtroppo non sono soltanto le case discografiche a non voler investire, ma lo stesso pubblico spesso è maledettamente tirchio.

Lorenzo Natali
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