È impossibile recensire Ghosteen senza parlare della tragedia che ha colpito Nick Cave quattro anni fa. Si potrebbe addirittura essere tentati di dire che è impossibile parlarne e basta.
Ghosteen non è un album, ma un funerale; un tentativo di superare il lutto più straziante messo in musica. Il lavoro di un artista che si mette a nudo in modo sconcertante. Parlarne è quindi un compito difficile.
La tragedia è ovviamente la morte del figlio quindicenne Arthur nel 2015. Il ragazzo, in circostanze misteriose di cui qui non accenneremo, precipitò da una scogliera vicino casa Cave.
L’evento aveva segnato solo in parte il già funereo Skeleton Tree, le cui canzoni erano state scritte in precedenza.
Quattro anni sono passati nel tentativo di superare il lutto, o almeno il blocco conseguente all’evento. Questa non è peraltro la prima tragedia che segna l’esistenza del cantautore australiano; a 19 anni Nick aveva perso, in una situazione quasi surreale, il padre. L’uomo era deceduto in seguito a un incidente stradale proprio mentre il figlio veniva arrestato con un’accusa di furto con scasso. Cave seppe della morte del padre dalla mamma, accorsa a pagare la cauzione.
Un evento tragico che sicuramente avrebbe segnato la carriera successiva del nostro, avvezzo a trattare temi cupi e drammatici.
Ma veniamo a Ghosteen.
Occorre intanto precisare che mai come in questo caso ci troviamo di fronte a un lavoro che trascende la pura valenza musicale. La tragicità che pervade il disco, anche se illuminata da squarci di luce che sembrano ricordare che la vita deve andare avanti, ha la meglio. Non si può fare a meno di ascoltare con religiosa concentrazione gli splendidi versi che Cave declama, e restare impietriti davanti al dolore e alla grazia espressi.
Il lavoro è doppio, composto da due parti. La prima rappresenta, nelle parole di Cave, i bambini; la seconda, tre pezzi molto dilatati, i genitori.
La struttura è molto diversa dal Cave più celebrato, quello delle Murder Ballads: il lavoro è quasi ambient. Il baritono di Cave, salmodiante nel declamare i versi, si apre in alcuni casi a un insolito falsetto e, di tanto in tanto, a melodie struggenti, come nella sublime Waiting For You.
Peace will come, a peace will come, a peace will come in time
A time will come, a time will come, a time will come for us
I versi, tratti da Spinning Song, riflettono la speranza che Cave vuole comunicare.
Ghosteen è un lavoro complesso, tale da necessitare di più ascolti per accorgersi delle gemme nascoste che racchiude. Il punto è proprio questo: si tratta di un disco che è difficile ascoltare più di una volta. Perché è talmente emozionante da devastare; è un vero funerale in musica, e ai funerali si va una volta sola. Se si cerca di andare oltre, l’album risuona però in tutta la sua potenza epica e quasi salvifica.
Oh the train is coming, and I’m standing here to see
And it’s bringing my baby right back to me
Well there are some things that are hard to explain
But my baby’s coming home now, on the 5:30 train
Passaggi come questo, da Bright Horses, sono quasi troppo per essere sostenibili, eppure altri invitano alla speranza, a cercare la famosa luce alla fine della notte.
It’s a long way to find peace of mind, peace of mind recita Cave in Hollywood, la conclusiva, imponente Hollywood.
Ghosteen è un disco difficile da affrontare, ma sarebbe un errore ritenerlo solo il disco del dolore e un lavoro da ascoltare una volta e lasciare tra le esperienze da non ripetere.
Ghosteen è invece un ulteriore passo avanti nel percorso di Cave, che emerge come unico per i risvolti privati e catartici, ma che prosegue un processo di scarnificazione dei suoni che era già in atto.
Anche se a tutti farebbe piacere rivedere il Cave rabbioso e malinconico di Murder Ballads, la realtà è che il percorso esistenziale dell’australiano adesso lo ha condotto qui. Un percorso, il suo, che merita grande rispetto.
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