John Lee Hooker, il blues che guarisce i mali

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Il 21 giugno del 2001 se ne andava John Lee Hooker, uno degli ultimi esponenti dell’oscuro blues delle origini, quello rurale e ancestrale che evocava direttamente l’Africa.

Il nostro ricordo si concentra in particolare su “The Healer”, l’album del 1989 che garantirà a John Lee Hooker il primo Grammy a oltre settant’anni. Uno sguardo sulla lunga storia di questo pioniere del rock è però d’obbligo.

Nato come nell’iconografia più classica del blues sulle rive del Mississippi, John Lee Hooker viene al mondo in una famiglia numerosa, com’era tipico. Undicesimo figlio di mezzadri, il ragazzino incontra il blues quando la madre si risposa e si trasferisce a Clarksdale. Il patrigno è un cantante blues che suona con grandi come Charley Patton; Willy Moore però usa anche accompagnarsi da solo, suonando la chitarra in un modo molto diverso dai raffinati bluesmen dell’epoca e che segnerà lo stile di John Lee Hooker. Moore disegna sulla sua sei corde ipnotici tracciati ritmici ripetendo all’infinito lo stesso accordo. Filtrato attraverso la sensibilità di John Lee, lo stile diventa proverbiale.

Abbinato al canto profondo e incredibilmente sofferto, il mood di John Lee Hooker è unico nel panorama blues del periodo.

Lontano dalla tecnica irraggiungibile di Robert Johnson, ma anche dall’istrionismo di Muddy Waters e dalle raffinatezze elettriche di B.B. King e T-Bone Walker. Hooker rappresenta la parte più ancestrale del blues, disperata e sensuale, ma anche commovente e finemente evocativa. La sua tecnica chitarristica è priva di qualsiasi regola ritmica e asseconda esclusivamente gli altalenanti umori di John Lee; negli anni della maturità il passaggio alla chitarra elettrica e a band d’accompagnamento più raffinate oscurerà in parte queste caratteristiche quasi tribali.

Negli anni quaranta Hooker si sposta a Detroit, la “motor city”, dove inizia a lavorare come operaio alla catena di montaggio.

Contestualmente prende a registrare nel 1948, cambiando decine di pseudonimi per incidere più volte canzoni simili. Esigenza dettata dalla scarsità delle paghe dei neri anche in ambito musicale. “Boogie Chillen”, dall’ossessivo riff di chitarra che sarà ripreso mille volte nel rock – gli ZZTop di “La Grange”, per dire – e “Boom Boom” diventano presto veri standard. Ma è col folk revival americano prima, e col british blues poi che John, già navigato cinquantenne, inizia a guadagnarsi da vivere con la musica. Rolling Stones, Yardbirds, Doors e tanti altri fanno a gara per incidere i suoi classici; a fine anni sessanta John Lee Hooker è una star e registra album coi Canned Heat, suoi devoti discepoli.

Del 1980 è la sua celebre partecipazione a “The Blues Brothers”, dove suona una leggendaria “Boom Boom” per la strada.

Gli chiedono perché indossi sempre gli occhiali scuri, proprio come i Blues Brothers: “Le parole e lo spirito delle mie canzoni sono poesia. E come la poesia colpiscono e danno forti emozioni. A volte, sono talmente coinvolto che quando canto un brano mi metto a piangere. Ecco perché quasi sempre, quando mi esibisco, porto gli occhiali neri. Non voglio che la gente mi veda piangere.”

“The Healer” esce nel 1989 e porta in sé un’idea che farà scuola: John Lee Hooker raduna grandi musicisti che lo venerano come un maestro e inscena con loro una serie di duetti. Colonna portante del progetto è Carlos Santana, che una decina di anni dopo farà lo stesso a sua volta in “Supernatural”, ottenendo il suo più grande trionfo. Carlos ha più volte dichiarato che John Lee è il suo più grande idolo e il bluesman, ricambiando la stima per il musicista e per l’uomo, lo chiama a sé per la traccia che dà il titolo alla raccolta.

“Ho ancora in testa il giorno in cui ci siamo trovati per registrare “The Healer”, a Sausalito – ricorderà Hooker -. Eravamo così su di giri al pensiero di poter finalmente fare un pezzo insieme che abbiamo attaccato gli strumenti e registrato il brano tutto d’un fiato. E la prima take è stata quella definitiva: non avremmo mai potuto rifarla meglio!”

In realtà “The Healer” è un pezzo molto di Santana e poco di Hooker, ma è un tributo e forse è giusto così.

I fraseggi liquidi della chitarra di Carlos accompagnano il talkin’ blues di John Lee, che declama il suo amore per il blues, ritenuto il grande guaritore di tutti i mali. Le percussioni e una tastiera forse un po’ invadente spostano le coordinate dal Mississippi ai Caraibi.

La traccia successiva è “I’m in the Mood”, il brano che vale a John Lee Hooker il Grammy Award. Il duetto vede protagonista Bonnie Raitt, eccellente blueswoman e valente chitarrista slide. Il brano, accompagnato da un ammiccante videoclip, è un prodigio di blues classico e sensualità, con il sontuoso lavoro di Bonnie alla chitarra.

“Baby Lee” è un altro classico blues dove stavolta a fare da contrappunto c’è la chitarra limpida di Robert Cray, discepolo forse più del Chicago Sound che di John Lee Hooker, ma ben a suo agio nell’omaggiare il maestro.

Con “Cuttin’ Out” siamo nel blues elettrico più classico e il duetto è doppio. A suonare infatti troviamo Charlie Musselwhite, grande armonicista attivo negli ultimi anni con Ben Harper, e i vecchi amici dei Canned Heat, con la pungente chitarra di Henry Vestine. “Think Twice Before You Go” riprende le classiche atmosfere del cavallo di battaglia “Boom Boom”. Ad accompagnare John Lee Hooker i grandi Los Lobos, per uno degli omaggi più riusciti e filologicamente corretti del lavoro.

“La prima volta che l’ho visto dal vivo sono rimasto a bocca aperta – rivela David Hidalgo dei Los Lobos -. Non avevo mai incontrato nessuno che mi comunicasse emozioni così forti. E poi quel suo vocione… Dio, è stato incredibile”.

“Sally Mae” è un altro pezzo da novanta della raccolta, un duetto tra la chitarra di John e quella infuocata di George Thorogood, incredibile chitarrista slide. Ancora un duetto con Musselwhite nello slow blues “That’s All Right” e la chiusura è tutta per Johnny Lee.

“Rockin’ Chair” e “Substitute” sono due performance in solitaria, voce, chitarra e piede che batte il tempo come una volta. Non ce ne vogliano i superospiti, ma sono i momenti migliori del disco; l’atmosfera che si crea è talmente evocativa che la tensione emotiva pare tagliarsi col proverbiale coltello. “My Dream” vede di nuovo John Lee Hooker assoluto protagonista, col misurato tappeto della sezione ritmica dei Canned Heat.

“The Healer” è il disco più venduto di John Lee Hooker, il primo a superare il milione di copie; ed è l’approccio più giusto alla sua arte per chi non avesse piena dimestichezza con un genere ostico come il blues rurale. Tuttavia, per chi volesse approfondire, consigliamo un ripasso alla prima discografia del bluesman, dalle registrazioni in solitaria dei primi anni all’impressionante live di “Live at Cafè Au Go-Go” del 1967.

Conoscerete uno dei più grandi musicisti del ventesimo secolo, e capirete sicuramente meglio gran parte del rock dai Rolling Stones in poi.

Andrea La Rovere
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