Giovedì 10 Ottobre siamo stati ospitati nella green room del BASE (Milano) per fare due chiacchiere con Wrongonyou e ascoltare “Milano Parla Piano”, il suo nuovo disco, in uscita il 18 Ottobre.
È un uggioso pomeriggio di Ottobre, la distesa grigia che si estende da qualche ora sopra la mia testa promette pioggia, ma senza mantener fede a se stessa, concedendosi solo tramite qualche sbuffo di vento che scosta le foglie umidicce. A rinfrancarmi da questo scialbo scenario ci pensano le comode poltrone della Green Room del BASE, e il caldo sorriso di Marco Zitelli, in arte Wrongonyou, artista romano classe 1990.
Mi lascio trasportare dalle note del suo nuovo album, dall’impostazione urban della prima parte, sporcata qua e là da influenze pop punk e da chitarre quasi rockeggianti, dall’interessante fusione di sonorità americane, o comunque nordeuropee, e di testi italiani, non solo perché scritti in italiano, ma proprio perché influenzati, anche nelle parole, dallo stesso cantautorato dello stivale, e quello storico, e quello recente, che per tutti ormai risponde all’etichetta di Indie. Le tonalità più serene e cinematografiche si discostano, e nella seconda metà ci si tuffa a capofitto in un’altra dimensione, dominata da melodie che oscillano tra le origini di Wrongonyou e sonorità molto più innovative, fortemente contaminate da suoni provenienti dall’elettronica, e interiorizzati nel suo pop de-poppizzato: un tour vorticoso nella psiche dell’artista, nelle tonalità cupe -ma mature, adulte- della riflessione, dell’angoscia per la propria libertà, della routine che logora e di una relazione con l’altro e con il mondo che a volte può ferire.
Terminato l’ascolto, è un attimo che Marco già si rende disponibile a tutti gli interrogativi dei presenti, con una naturalezza, una serenità curiosa e un’apertura tali da far sembrare che, in fondo, rispondere alle domande sia la condizione più naturale possibile per la sua persona.
Allora ne approfittiamo, e rompiamo il ghiaccio.
Ciao Marco, noi siamo sempre stati abituati a sentirti in inglese: quali difficoltà hai riscontrato nel cambiare la lingua di scrittura?
In verità è stato un qualcosa di immediato, una scintilla. Inizialmente non sapevo dove mettere le mani, per cui ho provato a sentire come suonasse la mia voce in italiano, misurandomi con delle cover di alcuni gramdi classici, il ché tra l’altro ha permesso una vera e propria scoperta del cantautorato italiano da parte mia, scoperta molto gradita: mi sono divertito a scovare le molte corrispondenze con artisti stranieri parecchio distanti, è stato inaspettato.
Dopodiché, in seguito alla scrittura del mio primo testo in italiano, ho cominciato a prenderci gusto, e da lì ho proseguito a briglia sciolta.
Questo è solo l’inizio di un nuovo percorso, e se devo dirti la verità, adesso mi è quasi più difficile scrivere in inglese.
Detto ciò, l’aspetto più complesso di questo processo è stato quello di trovare le parole giuste per la mia vocalità, abituata alle lunghe vocali -e quindi note- dell’inglese: in italiano le parole spesso si troncano, selezionare le migliori, evitando di spezzarle, è stato parecchio tosto.
Hai adottato dei punti di riferimento precisi?
Mi sono ispirato al cantautorato italiano degli anni ’60 e ’70: in quegli anni le canzoni parlavano del quotidiano, l’artista narrava tutto ciò che lo circondava, e questo è quello che ho voluto fare.
Non ho tratto molta ispirazione dalle parole, o dalla musicalità, siccome la mia intenzione era quella di mantenere quel sound internazionale che mi caratterizza, cantando però in italiano. Piuttosto, ho preso spunto dalle loro figure, dalla loro libertà di pensiero, che gli ha consentito -così come ha consentito a me- di parlare di qualsiasi cosa, pur mantenendo una scrittura ricca di immagini.
E un’alchimia di segno opposto, con musicalità più vicine a quelle dello stivale e scrittura più nordeuropea, magari cantando anche in inglese, sarebbe possibile?
Ho registrato delle demo in cui provo a fare qualcosa di simile, tuttavia nell’ultimo periodo sto scrivendo senza sosta in italiano, in appena qualche mese ho scritto decine e decine di canzoni.
L’inglese per me era un filtro, ed era anche un filtro per chi mi ascoltava. I miei messaggi non potevano arrivare in maniera diretta, la lingua può fungere da barriera: ora ho un’armatura in meno, sono meno limitato. Me ne rendo conto anche quando canto le mie canzoni, prima imparavo le parole a memoria e seguivo molto di più i suoni, adesso penso a ogni parola che dico, ci ragiono molto di più.
Che peso ha avuto Milano in tutto ciò?
La scrittura è stata direttamente plasmata sulla mia realtà, e quindi da qualche mese a questa parte anche su Milano. Perciò se il protagonista del mio film sono io, la realtà meneghina ha fatto da scenografia, fondamentale e allo stesso tempo contingente: se fossi rimasto a Roma, probabilmente avrei parlato di lei.
Per quanto riguarda il sound, invece, Milano non ha influito, sono stato influenzato dai miei ascolti internazionali: l’idea alla base era quella di porre al centro dell’attenzione la voce e la chitarra, come strumenti principali.
In particolare, ho voluto utilizzare la voce persino come elemento ritmico; prendi “Calma”, ad esempio, dove le parole in inglese fungono da cornici, da ambientazioni.
L’esigenza della chitarra invece nasce come reazione al suo graduale accantonamento nella musica recente: è uno strumento che merita di essere studiato e suonato come si deve, di essere riportato in auge; io ho voluto riportarlo alle fondamenta, se spegni le tracce delle chitarre, le canzoni di questo album crollano.
È questo il motivo per cui hai scelto proprio “Milano parla piano” come canzone per titolare il disco?
Anche, sì. Ma la vera ragione è che come titolo mi è parso molto poetico, un po’ á la Gino Paoli.
Nella fattispecie, questa frase la intendo come una richiesta esplicita alla città, a Milano, di cessare la sua perpetua frenesia, almeno per una notte: io vengo dai castelli romani, nemmeno da Roma, sono abituato a vivere a cinque minuti di macchina dal bosco, e adesso ho attraversaro un cambiamento totale. Abito sui navigli, ho sperimentato di punto in bianco una frenesia e un chaos mai toccati prima. O meglio, mai toccati prima per come sono declinati qui.
Milano infatti è intrisa fin nelle sue radici di tanta voglia di ardere, e tanta voglia di arrivare. Pure Roma è caotica, certamente, ma è un chaos più genuino, popolare, viscerale, è mosso da altre forze: forse è più spontaneo, non ha una meta propria, cosa che qui sarebbe impensabile.
E poi, comunque, ho notato che Milano, a un certo punto, a una certa ora della notte, si spegne, anche se per qualche attimo. Roma, invece, no.
Abbiamo parlato molto di differenze, ma quali sono i punti di contatto con la produzione precedente di Wrongonyou?
Secondo me in realtà si può accostare molto ai miei lavori precedenti, c’è una certa continuità: forse il primo disco era più pop, questo l’ho s-poppizzato, per creare un neologismo: i riferimenti pop rimangono, ma sono camuffati; inoltre, c’è una ricerca decisamente maggiore per quanto riguarda i suoni, ho sperimentato davvero tanto.
Questo perché volevo portare in italiano delle cose che normalmente fanno solo all’estero, senza paura di scontrarsi con un discografico o di non andare in radio; per fare un esempio, tra gli altri ho preso tanto anche da Kanye West, e mi riferisco soprattutto alle molti voci pitchate. Insomma, c’è stato un progresso.
E dal vivo come pensi possa essere reso, soprattutto considerando il numero abitualmente consistente di tue date all’estero?
Sarà interessante: io ovviamente ho voluto mashuppare i due mondi, quello della lingua italiana e quello dei suoni stranieri; in live questo potrebbe anche andare bene, ma onestamente questa non era la mia priorità: l’aspetto che mi stava più a cuore era quello di creare della musica che fosse più direttamente dedicata al mio Paese, e quindi che risultasse più immediata qui in Italia, ma senza mai tradirmi. Non sarei riuscito ad fare semplicemente un pezzo da radio, sarebbe stato troppo disonesto nei miei confronti, il lavoro grande è stato ritrovare la mia voce, però in italiano.
Il disco, giunti circa a metà, si spezza: cambiano le parole, le immagini, i messaggi trasmessi; l’atmosfera si fa più intimistica ed esistenziale. Le riflessioni della seconda parte sono frutto di un episodio scatenante o di una crescita?
Ho provato a essere il più maturo possibile: il lavoro che sto facendo nella mia vita privata è esattamente quello di diventare sempre più uomo, di emanciparmi sempre più. Per esempio, in “Mi sbaglio da un po’” viene raccontata una metamorfosi emozionale, che passa dal reagire in maniera istintuale e arrogante nei confronti di una persona resasi protagonista di un litigio (in questo caso si tratta della fine di una relazione amorosa), per poi arrivare alla comprensione del fatto che, a volte, i passi indietro non siano una resa, ma uno statuto di responsabilità e consapevolezza.”Più di prima”, invece, è una riflessione molto personale, che però in quanto tale, assume un valore esistenzialmente universale: non a caso il disco è dedicato a chi si vuole bene, e per volersi bene bisogna imparare a conoscersi, oltre che a rendersi conto del proprio contesto. Mi sono immaginato come una nave, rossa (così infatti è raffigurata in copertina), durante una fortissima burrasca, che riesce a raggiungere un mare sì calmo, ma dove si naviga a rilento. È in parte anche la metafora del mio percorso musicale: il mondo della musica è difficilissimo, si prendono tanti schiaffi ma, anche grazie a quelli, si assumono molte responsabilità, si comincia a credere sempre più in se stessi: da lì si matura una consapevolezza tale per cui si decide di lottare per restare vicini alla terra, per evitare di spingersi troppo al largo, perché sarebbe pericoloso. Bisogna aver il coraggio di percorrere la propria strada, anche se a volte può essere complessa.
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