2112 è un album dei Rush del 1976, quello che li consacrò nell’Olimpo del prog rock. Ed è anche un’epica fantascientifica.
Neil Peart è morto. Lunga vita al prog!
Il prog. Un genere sconfinato, dai confini più confusi di quelli fra Libia e Algeria, perso in mezzo a sabbie di tempi dispari e cambi di chiave: innumerevoli modelli, dalla grande fioritura italiana agli iniziatori del genere in Inghilterra, fino al prog metal generato da Metallica e Dream Theater. Ma qual è la band che ha coniugato al meglio hard rock e raffinatezza compositive – Yes, Jethro Tull, assieme ai Led Zeppelin?
I Rush.
2112 uscì nel 1976, per la firma di Peart, Geddy Lee, Alex Lifeson, in un’epoca tanto vicina quanto infinitamente distante. Pol Pot fondava la Kampuchea Democratica in Cambogia – che terminerà nello sterminio di tre milioni di persone, un quinto della popolazione del paese. Qualcuno Volò sul Nido del Cuculo di Milos Formàn entrava negli annali del cinema vincendo l’Academy Award al Miglior Film. James Hunt rubava il titolo di Campione di Formula Uno ad un quasi moribondo Niki Lauda. In Italia compievamo un gigantesco passo indietro: l’aborto veniva considerato infatti reato, nonostante le battaglie del medico Emma Bonino e dei radicali tutti. Verrà depenalizzato nel 1978.
Comunque, i Rush. I Rush sono tutti e tre canadesi, le problematiche europee non li toccano e si infilavano felicemente nell’hard rock nel 1974 con l’album omonimo, sfornandone poi tre in due anni: Fly By Night, Carees of Steel, e infine 2112. Solo quest’ultimo bissò il successo di Rush, ed a buon titolo: il trio era in grazia compositiva, quasi una santa mano d’LSD gli si fosse posata nella corteccia cerebrale.
Al di là delle digressioni farmaceutiche, 2112, per stessa ammissione di Peart, se non fosse stato un successo, i Rush si sarebbero sciolti. Ed ecco il capolavoro: la lunghissima suite composta da Ouverture/The Temple of Syrinx/Discovery/Presentation / Oracle/ Soliloquy/Grand Finale. Un mini album in sé: la scelta coraggiosa – e nient’affatto commerciale, praticamente una scommessa – è da rintracciarsi nell’aver posto nel Lato A di 2112 tale grandiosa opera da venti minuti, dando spazio ai singoli da quattro minuti solamente sul lato B.
Ouverture ci introduce al tipico riff del disco, imitatissimo e declinato in un neoclassical blues dalle tinte spaziali – e spaziali sono le esplosioni che chiudono l’introduzione ci portano a The Temple of Syrinx. Ecco che veniamo catapultati in un mondo distante dal nostro, tanto quanto lo è il 1976: ora, gli album che si rifanno alla fantascienza sono rari, rarissimi, se si eccettua Tiara dei Seventh Wonder, ma in quegli anni lontani si osava ancora immaginare e sperare di far sognare l’ascoltatore. Peart, autore dei testi, era un grandissimo fan dell’ancora recente serie (allora non ancora) classica di Star Trek, capolavoro di Gene Roddenberry cui siamo debitori ancora oggi. All’epoca, anche i Blue Oyster Cult si fecero ispirare dalla fantascienza per il loro Secret Treaties.
E gli umili riceveranno la Terra.
Il discorso della montagna introduce, appunto, il secondo movimento della suite – discorso che è stato genialmente trasposto, in tempi recenti, da Maynard Keenan in The Doomed da Eat the Elephant. Un impero teocratico governa la galassia, ci dice Lee con voce acuta – aliena, futuristica. Viene lasciato sottinteso che la dittatura in questione sia di origine comunista, o quantomeno collettivista, nonché tecnocratica (un tema carissimo a Roddenberry stesso, come si nota in molteplici episodi Star Trek): nessuna divisione, grigiore – o ricchezza, o povertà – comune a tutti. 1984 di George Orwell era ancora fresco nelle menti dei nati negli anni ’50, non solo un mero ricordo di scuola.
Frusciare di limpide acque introduce Discovery, ed il nostro anonimo protagonista. Un arpeggio delicato, blues, quasi un gospel, tiepido sottofondo di un fonte battesimale. Il protagonista non conosce la musica, non ha idea di cosa sia uno strumento musicale. Si ritrova fra le mani una chitarra acustica, la stessa che emette quel vibrato gentile. La teocrazia tecnocratica ha bandito l’arte che non sia atta alla propria venerazione: ha bandito la libertà. Ed è qui che un’altra delle ispirazioni care a Peart è chiaramente riconoscibile: Anthem, di Ayn Rand, romanzo distopico del 1937 – e spaventosamente attuale per essere stato scritto in un’epoca senza conoscenza del DNA o dell’energia atomica – che narra di un futuro oscuro in cui la collettività ha preso il sopravvento sul singolo, che non esiste in quanto entità. Non esistono pronomi singolari: l’umanità è un alveare, un termitaio, un insieme egualitario in cui tutti spariscono.
L’uomo, però, compie una scelta alquanto azzardata, in 2112: fin troppo fiducioso, mostra, in Presentation, la scoperta dello strumento musicale ai sacerdoti del Tempio di Syrinx. Accordi maggiori e blueseggianti narrano il monologo dell’uomo, speranzoso; ma come il primitivo de Il Mondo Nuovo di Aldous Huxley, dedito all’incessante lettura del compendio del teatro di Shakespeare – vietato – si ritrova a combattere una realtà già nota al governante di quel mondo. Con voce stridula, arrabbiata, ed accordi angosciosi – teatrali – i sacerdoti rispondono di sapere.
E di preferire un mondo senza la bellezza della creatività. Senza la Novità, senza i colori.
Ma il protagonista, come Equality di Anthem, non si arrende. Con un netto cambio di ritmo e basso e chitarra che dialogano sovversivi, veniamo introdotti alla sezione più energica della suite: Oracle. Il protagonista si rifugia nei suoi sogni, ed il mondo di 2112 si espande: come in Tiara dei Seventh Wonder, l’umanità – quella migliore, quella che ha costruito mega strutture, ancora gloriose e meravigliose, sulla terra – se n’è andata verso le stelle. Ed ha lasciato i suoi resti, degli straccioni, alla mercè di tale totalitarismo. In un crescendo marziale, l’anonimo protagonista medita idee rivoluzionarie – la totale distruzione del Tempio, simbolo di un potere oppressivo.
Il tema di Discovery viene recuperato in Soliloquy – il delirio di un bombarolo afflitto dalle mura di prigionia in cui si ritrova. Grande tristezza si appropria della chitarra, che canta come una sirena, un cardellino disperato: ed ecco che il sangue del protagonista incomincia a fluire. Non c’è vita senza libertà.
C’è forse speranza nel gran finale, in cui viene ripetuta la frase:
Attention all Planets of the Solar Federation
Attention all Planets of the Solar Federation
Attention all Planets of the Solar Federation
We have assumed control
We have assumed control
We have assumed control
Ma chi si sostituirà a quella tirannide?
Terminata la grandiosa suite, 2112 prosegue con soli cinque brani, partendo da A Passage to Bangkok, che sostanzialmente un gradevole filler asiaticheggiante che ci porta a The Twilight Zone, primo singolo dell’album (e ben poco rappresentativo di esso): per chi non lo sapesse, parliamo della serie antologica Ai confini della realtà. Suggestivo, calmo, riflessivo. Crepuscolare.
Si prosegue con Lessons, ballad hard rock interpretata magistralmente da Lifeson, e con Tears, sentito brano d’amore accompagnato da un toccante mellotron. Ma è con la finale a Something for Nothing che si recupera il sentore della suite: i riff intrusivi, l’acuto cantare di Lee – un brano meraviglioso sul palco ed un classico della band. Peart, forse, dà qui il suo meglio: puntualissimo, detta i tempi in maniera creativa e, complice una produzione eccellente, ci ritroviamo con uno dei più incredibili pezzi di batteria di sempre.
2112 fu l’album della consacrazione per i Rush, e per la poetica letteraria d Peart, un genio del suo strumento: intricati tempi dispari, direttore di una piccola orchestra ma incredibilmente complessa, e che ha lasciato un vuoto incolmabile nel panorama musicale.
Vi lascio con una domanda che l’anonimo narratore di 2112, morto suicida, non ha avuto la fortuna neanche di concepire. Chi saranno i nuovi Rush?
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