C’è questa tendenza alla tristezza e malinconia, nel 2020. Il che avrebbe anche senso. Sarebbe giusto, in questo anno infernale. Ma anche la tristezza va raccontata con classe.
C’è una scena di cantautori americani che, della tristezza, ha fatto scuola. Di quella malinconia sonnolenta, da tapparella abbassata in piena estate di primo pomeriggio, che talvolta ha anche risvolti poetici, come nel caso della giovanissima Phoebe Bridgers, di Julian Baker, Lucy Dacus, Connor Oberst… e i capostipiti: Bon Iver e i The National.
Una calma placida, raffinata, ambient, un delicato sottofondo per una cena a lume di candela, ma distante chilometri dalle tridimensionali sfaccettature degli Arcade Fire, Echo & The Bunnymen, Bloc Party. Insomma, un target ben ristretto: musica indissolubilmente legata ad un determinato mood, fruibile, ma ricolma di emozioni fluide e, allo stesso tempo, appena accennate, per il fruitore.
Per qualche ragione che non conosco, ma che si può facilmente ipotizzare, folklore, nuovo album della ex pop-star Taylor Swift, è stato prodotto, scritto, suonato, e cantato dai The National, Bon Iver e da Jack Antonoff – più noto per essere stato il chitarrista dei fun., datosi oggi alla produzione.
Ora. Taylor è fra le poche popstar ad avere un timbro caldo, adulto, non miagolante – va anche detto che finalmente, quest’era di squittii, può essere decretata abbondantemente finita. Sebbene dotata del white privilege, Taylor è una figura non scomoda, accogliente, che non ha mai ecceduto nelle provocazioni a là Lady Gaga o alle rispostacce alla stampa tipiche di Rihanna; la storia infelice della vita della Aguilera, i drammi con la droga di Britney Spears. Dal lato cantautorale, però, non ha mai nemmeno lontanamente potuto aspirare al talento di Lana del Rey e del suo Norman Fucking Rockwell, o, appunto, di un Chromatica (leggi qui) di Lady Gaga. O della voce e della duttilità di Sia Furler.
Detto ciò, perché non affidarle, figura così carducciana, da parte della Universal, un album totalmente cantautoriale, tanto da poter, dunque, smuovere verso i lidi tipici, appunto dei Bon Iver e dei The National, parte dell’audience della suddetta popstar?
Perché folklore, sostanzialmente, è un album american indie “rock”. Bellissimo, per i Bon Iver. Oggettivamente eccelso: un lavoro che avrebbe simboleggiato una rivoluzione nel pop se non si fosse trattato di una mossa commerciale ardita quanto paracula quanto facilmente smascherabile.
È un album intimo, delicato, da quarantena: non ci sono picchi emotivi, si rimane nella delicatezza donata da una produzione eccelsa a brani come il singolo cardigan e the last great american dinasty – da questo brano si può evincere uno dei principali temi portanti di folklore, e potrebbe sorprendervi: l’amore ai tempi della classe operaia, della sempre crescente difficoltà nel realizzare i propri sogni e desideri tipica dei giovani odierni. In una parola: sulla povertà. Scevra, però, del romanticismo tipico degli anni ’60: laddove c’era speranza, in folklore, c’è solo la resa. Il che, però, ci fa domandare il perché, allora, del titolo: insomma, l’ultimo album di Myrkur, ricercatrice di musica antica svedese, si intitola Folkensange. Che c’entra il folklore (e tutti i risvolti musicali necessari) con le storie di vita vissuta di Taylor Swift?
Rebecca gave up on the Rhode Island set
Forever
Flew in all her bitch pack friends from the city
Filled the pool with champagne and swam with the big names
And blew through the money on the boys and the ballet
And losin’ on card game bets with Dalí
Il tocco sperimentale, da Imogen Heap, è presente in tutto folklore, ma approfondito e palesato in poche tracce: my tears ricochet, in cui si può ammirare Taylor Swift, peraltro, sfiorare bassi profondissimi come mai nella sua carriera – ed un lievissimo lavoro di vocoder in sottofondo. Minimalismo estremo caratterizza mirrorball, invisibile string (che, neanche a farlo a posta, è sorretta da una sola chitarra acustica, peraltro suonata in un modo eccelso, espressivo e caldissimo), mentre tocchi elettronici – che, però, scordatevi che possano suonare come raffinati, o rivoluzionari: non siamo in un album di Susanne Sundfor o Fever Ray – sono permeanti in this is me trying, nella opening the one, in august e betty – mescolata, appunto, con una persistente chitarra acustica che fa, fin troppo, il verso all’esordio della Bridgers, rubandone anche la falsa gioiosità da campo estivo in mezzo ai boschi (lì, in Stranger in the Alps, perfettamente calzante e giustificata), risultando come in un plastificato falso storico. La donazione di Costantino in musica. La sensazione di truffa, di giocattolo taroccato, si ha anche in mad woman (in cui non c’è nulla di mad) e epiphany. Quest’ultima, assieme a the last great american dinasty, fra le poche che, finalmente, possiedono un eccellente lyricwriting, ed un patinato, quanto ossimorico, cantato, nella linea vocale fatta di eterei diesis:
Something med school did not cover
Someone’s daughter, someone’s mother
Holds your hand through plastic now
“Doc, I think she’s crashing out”
And some things you just can’t speak about
La tragedia del covid19 vissuta, da privilegiata, in un paese che non possiede copertura sanitaria pubblica: in cui, gli ultimi sono per davvero gli ultimi, i reietti, i paria, i burakumin, gli ebrei di sempre; destinati a morire, da soli, in case fatiscenti. Il perché l’ending di folklore, che, continua a truffarci, sia stato affidato ad hoax permane per me un mistero – forse, con quel pianoforte, avrebbe voluto suonare da lullaby. Non saprei.
Ho, finora, appositamente evitato di parlare di un brano, IL brano di folklore: l’unico per il quale varrebbe la pena spendere, davvero, profondamente, due parole. E, vi dirò di più, se non siete casual listeners o amanti spregiudicati della cultura pop e anche un po’ masochisti, l’unico che apporti qualche tipo di pregio al lavoro quarantinierio della Swift.
Exile, suonato, cantato, dai Bon Iver. Il cui vocalist Justin Vernon è, assieme a The White Buffalo, uno dei più espressivi cantautori della nuova generazione americana (della ultima grande dinastia americana, ah ah). Bollente, sensuale, affascinante: un brano splendido, e anche originalino, se non avessimo mai avuto Nick Cave con Kylie Minogue in Where the wild roses grow.
Ecco. Non c’è molto altro da dire riguardo folklore, nuovo, improvvisato album di Taylor Swift, feat The National, feat Bon Iver. Perché la sensazione truffaldina permea ogni nota. Perché, in sostanza, dal titolo, ci si sarebbe aspettati qualcosa: non pretendo un piano trascendente della realtà, perché la musica, senza acido lisergico, difficilmente può ivi trasportarci; avrei, però, preteso un’allegoria. Del folklore americano, così nuovo, così peculiare, così occidentale, così ipercapitalista, numerosi scrittori ed artisti hanno preso a piene mani, l’hanno sviscerato, l’hanno elevato ad epica – Roth, su tutti.
Cosa ci dice, cosa aggiunge, cosa analizza, davvero, in profondità, Taylor Swift, col suo folklore? Nulla.
Ascolteremo exile cenando ben distanziati in ristoranti a lume di candela, con un venditore di rose appassite ad offrircene. E nulla avremo da commentare.
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Recensione povera e becera, priva di critiche basate sull’effettivo lavoro che sta dietro all’album, ricca di pregiudizi e di poca sostanza. Folklore è un album intimo e che ha molto da dire nei testi, alcuni davvero intoccabili, sostenuto da una produzione quasi magistrale e una vocalità che esprime più di quanto ci si potesse aspettare dalla Swift!
Il “trovata commerciale” era risparmiabile, parliamo di Taylor Swift che di certo non ne ha bisogno.
“Paraculata” ? Davvero fuori luogo come parola in questo caso.
Cara Giulia, ritenta, ti andrà meglio alla prossima !
Concordo con te, Chris.
Taylor Swift non è la mia cantante preferita, ma “Folklore” (e anche “Evermore”) sono album bellissimi