Sono passati tre anni dall’ultima pubblicazione degli Haken. Agli albori della pandemia usciva Virus (titolo infelice, date le circostanze). Al termine o quasi della stessa e nel pieno della guerra in Ucraina esce Fauna.
Il sestetto inglese si presenta a questo nuovo appuntamento orfano dello storico tastierista Diego Tejeida, sostituito da Pete Jones. E più in là valuteremo cosa ha comportato questo cambiamento di line-up.
Il punto di partenza di Fauna è chiaro ed evidente fin dal titolo e dalla copertina: il regno animale.
Gli Haken hanno deciso di realizzare nove canzoni che partissero da un animale specifico per approfondire aspetti precisi dell’interiorità umana. Ecco quindi che ad esempio la conclusiva Eyes of Ebony, oltre a essere ispirata alla recente estinzione del rinoceronte bianco, si ricollega alla morte del padre del chitarrista Richard Henshall. In un certo senso, accomunando l’estinzione di una specie animale con la morte di una figura fondamentale della propria vita.
Ma Fauna è piena di richiami tra il mondo animale e la bestialità dell’uomo, dalle relazioni tossiche associate al morso velenoso di un ragno in Lovebite, alla memoria, alla nostalgia, alla dignità e al rancore legate all’immagine dell’elefante in Elephants Never Forget, fino a lasciarsi trasportare nella corrente della vita come fa una medusa nel mare. E più si ascolta l’album e più se ne studia la copertina con i suoi dettagli e più si paleseranno legami sempre maggiori.
Il concept di partenza è quindi estremamente interessante, forse uno dei più curiosi e sopraffini che gli Haken abbiano mai immaginato sin dai tempi di Aquarius, al di là del regno fiabesco di The Mountain, del revival degli anni Ottanta di Affinity o del virus psicanalitico di Vector e Virus (che difatto sono i due atti della stessa opera).
La profondità del concept da Fauna proposto certifica (nel caso ci fossero ancora dei dubbi) la forza e la grandezza di questo gruppo, che si conferma come una delle realtà musicali più importanti degli ultimi anni. La vastità della portata musicale degli Haken è ormai confermata su standard esecutivi, compositivi ed estetici assolutamente elevati.
Si potrebbe azzardare un paragone di quelli altisonanti, suggerendo che gli Haken siano per i Millennials e la Generazione Z quello che i Genesis sono stati per i boomer.
Al netto dei complimenti che il sestetto inglese merita in partenza per il coraggio delle proprie idee e il valore delle proprie capacità, bisogna comunque arrivare alle note dolenti.
Fauna non è un gran disco.
Non è un gran disco come invece sono stati Virus o Vector, dei quali pur riprende le sonorità più Metal che stanno caratterizzando il sound della band negli ultimi anni senza però il vigore granitico che li caratterizzava.
Non è un gran disco come invece è stato Affinity, la cui coerenza concettuale e il cui equilibrio dall’inizio alla fine lo rende uno dei migliori album Progressive Metal di sempre e la potenza di un bel concept non basta a eguagliare, o quantomeno avvicinare, questi risultati.
Non è un gran disco come sono stati Aquarius, Visions e The Mountain, nei quali la forza delle idee e della fantasia trascendevano qualunque ostacolo, nei quali l’energia esplosiva di un gruppo agli albori ma già con obiettivi ben precisi ci permetteva di superare anche gli ostacoli più spinosi, ostacoli che invece fatichiamo a superare in Fauna.
A quest’album manca qualcosa. E quello che gli manca è avere un limite.
Gli Haken hanno dato sfogo a tutte le frecce al loro arco, a tutte le idee più folli del proprio arsenale, ben consci del fatto che le capacità esecutive dei vari musicisti sono potenzialmente illimitate e che la produzione in fase di mix e master farà il resto, qualunque esso sia, whatever it takes. Ma questa mancanza di limiti li ha spinti a muoversi quasi sempre in un mondo compositivo confuso, caotico, a tratti cacofonico.
Va benissimo essere i padroni del Progressive, ma compiacersi all’interno di un mare di tempi dispari incalcolabili, come loro stessi amano dire, distaccandosi dall’ascoltatore, demolisce in parte la portata della loro musica (si ascolti la sezione strumentale di Beneath The White Rainbow per farsi un’idea molto chiara del problema).
Gli amanti del Progressive conoscono questa problematica. Il genere è di per sé più complesso da suonare rispetto ad altri proprio per le caratteristiche che lo contraddistinguono. Chi lo suona deve dare prova di possedere tutta una serie di abilità esecutive non da tutti. Chi lo ascolta è spesso un pubblico esigente e difficile da accontentare. Ecco quindi che varie band Progressive arricchiscono il proprio repertorio, album dopo album, di composizioni sempre più complesse, sempre più intricate, sempre più difficili da eseguire, trascurando l’importanza della musica e del messaggio musicale in generale (qualcuno ha detto Dream Theater, per caso?)
Gli Haken in Fauna hanno scavato troppo a fondo nel campo della complessità compositiva, aggiungendo tempi dispari su tempi dispari su poliritmie su incastri di armonia fino a sfuriate avantgarde, quasi costretti a confermare e alzare sempre più l’asticella della loro proposta. Una tendenza che si era cominciata a palesare già con Affinity e che è andata via via aumentando con gli album successivi.
Ecco quindi che ascoltare determinati brani di Fauna diventa un’impresa piuttosto faticosa, su tutti Elephants Never Forgete The Alphabet Of Me.
Il che è un peccato, perché Fauna è un disco molto interessante, molto profondo, ricco di spunti da analizzare e, probabilmente, con i testi migliori di tutta la discografia della band. Leggete i testi delle canzoni di questo album senza ascoltarne le musiche e assisterete a nove esempi di poesia contemporanea sulla società umana, inframmezzata da biologia, fantasy e storia, con vari livelli di lettura e interpretazione.
Ma per quanto Ross Jennings si impegni al microfono, la forza del suo messaggio è soverchiata, stavolta più che mai, da cascate di note, piatti e tamburi fuori tempo (ah no, sono a tempo, ma il tempo è… 17/19?), suoni, effetti sonori, rumori… La sovrabbondanza di Fauna è evidenziata ulteriormente dal fatto che non ci sono praticamente assoli di chitarra e forse ce n’è uno di tastiera, anche perché tutto l’album è in pratica un assolo per ogni musicista del gruppo.
A proposito di membri del gruppo, torniamo al passaggio di testimone alle tastiere tra Tejeida e Jones.
Si era notato come da dopo Affinity, il ruolo delle tastiere negli Haken si stava assottigliando sempre di più, in favore di un’esecuzione meno protagonista e più di supporto alle chitarre, puntando spesso più sulla ricercatezza dei suoni che sulla composizione delle partiture. L’abbandono di Tejeida e l’arrivo di Jones conferma ed esaspera questo rapporto all’interno della band. Inoltre si percepisce la mancanza di un equilibrio e di una coerenza a livello compositivo a cui molto probabilmente il precedente tastierista contribuiva in maniera significativa, diversamente da quanto per ora dimostrato da Jones. (Diamogli tuttavia tempo di rifarsi alla prossima pubblicazione per confermare questa sensazione o meno).
Un altro importante difetto caratterizza Fauna: una sottile, ambigua, non evidentissima ma comunque presente mancanza di originalità. Fattore non scontato negli Haken. Ma in più di una canzone si riconoscono, in particolare nei ritornelli, le linee melodiche tipiche dei Periphery (in maniera lampante in The Alphabet Of Me, meno evidente ma comunque presente anche in altri brani). Dato che Adam “Nolly” Getgood, per anni bassista di questa band, è stato produttore degli ultimi album degli Haken, è possibile che lo stile di certe composizioni, l’impatto sonoro realizzato e alcune idee in generale possano essere convogliate dalla band americana a quella inglese, suscitando questa sensazione di imitazione.
Non manca di farsi notare anche una certa somiglianza tra le poliritmie proposte dagli Haken in Fauna e quanto fatto (e con migliori risultati, bisogna dirlo) dai TesseracT soprattutto in Altered State (uscito ben 10 anni fa!).
Ad ogni modo, non tutti gli album possono essere capolavori. Fauna chiaramente non lo è, ma questo non deve svilire il lavoro fatto finora dagli Haken. Del resto, non sono una band di sprovveduti: anche in questo lavoro meno riuscito di altri si può riscontrare una piacevole esperienza d’ascolto complessiva, con punte di grande godimento in alcuni brani come Sempiternal Beings, Island In The Clouds e Lovebite.
Quindi nonostante un lavoro non decisamente al top, siamo ben consapevoli che gli Haken sono un grande gruppo e una grande realtà musicale, di questi anni così come della storia del genere. Dobbiamo solo attendere con calma il prossimo album. Sia noi che loro.
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