Impera, Ghost: recensione

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Il Popestar è tornato. Fumata bianca in casa Ghost: Impera è il nuovo album. In uscita l’11 marzo 2022 per Loma Vista Recordings.

Unica vera band rock di superstar, in grado di riempire grandi arene e fare sold out, i Ghost, nella persona di Tobias Forge, sono attivi dal 2006. Inizialmente una ehm, ghost band, il master mind Forge svelò sé stesso successivamente alla polemica incentrata sulla sua “egomaniaca personalità” lanciata da uno dei Ghoul, un chitarrista ritmico.

Il lavoro precedente ad Impera, Prequelle, era stato elogiato da critica e audience. Ambientato ai tempi della peste nera, mescolava cupa ironia a tematiche blasfeme, morbose, e si avvaleva di interessanti espedienti linguistici (Dance Macabre) e romantiche ballad (Life eternal) per un prodotto equilibrato, moderno, godibilissimo: amato dai boomer per il recupero di quelle sonorità heavy metal colonna sonora d’adolescenza, idolatrato dai millennials per il gusto vintage, considerato geniale dai genZ che non hanno mai sentito Poison di Alice Cooper.

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Impera si mantiene sullo stile di Prequelle, ma, probabilmente, ne aumenta il carico melodico. Ogni brano, da Kaisaron a Respite on the Spitalfields, respira di vita propria – ma un soffio vitale che proviene dagli anni ’80, ha saltato a piè pari il grunge, si è mescolato a quello dei Green Day e della scena punkpop dei primi ’00, ma è riuscito ad avere un corpo, finalmente, solo grazie alla sintesi musicale che l’avvento di Internet ha permesso.

Spillways, terzo brano di Impera, ne è fulgido esempio. Strutturato come un brano degli ABBA, ha in sé le linee vocali rintracciabili nei The Darkness, e fa ballare come i brani di The Rocky Horror Picture Show: Forge si dimena come un Axl Rose adoratore del diavolo invece che dell’apparato sessuale femminile. Ma non c’è solo banale imitazione e revival in Impera dei Ghost, come non c’era solo in Infestissumam e in Prequelle: c’è un concept intelligente, scenografico, che trasuda da ogni nota; ed è il sarcasmo che Forge esprime di fronte a qualunque tipo di culto. Nell’incarnazione dei Ghost, è stato scelto il satanismo. Call me little sunshine, ballad uptempo dal sapore quasi marziale, tratta di un demone (l’inflazionato Mefistofele), che si rivolge ad un innominato adoratore chiedendo di essere chiamato…Little Sunshine. Che sicuramente è un riferimento alla natura ondulatoria e luminosa di Lucifero, ma quel sentore di film indipendente del Sundance festival è troppo forte per essere ignorato. Nel videoclip, influenze dei Faust di Goethe si fanno palesi.

Se in Prequelle i Vampiri erano abbondantemente presenti, in Impera i licantropi la fanno da padrone (Edward Cullen non ne è felice). In Hunter’s Moon, brano pop rock caratterizzato da un refrain trascinante e lunghissimo, il lupo mannaro/cacciatore è Michael Myers, protagonista della serie horror (anni ’80…) di Halloween, iniziata dall’immortale lavoro di John Carpenter – compositore peraltro molto amato da Forge. Watcher in the Sky, poi, si rifà pesantemente ai lavori piu’ recenti degli Iron Maiden – il pesante e complesso intreccio di chitarre e basso ne è testimone – apportando carattere e pesantezza ad un lavoro finora leggero come un bacillo di Yersinia pestis.

Tre sono gli intermezzi strumentali in Impera: l’ouverture, Imperium, la middle track, Dominion, e la penultima traccia, Bite of Passage. Neoclassiche nella composizione, sorrette da fiati – oboe e fagotto – fanno della commedia giocosa il loro riferimento. Twenties inaugura la seconda parte di Impera, un po’ wagneriana, dipingendo una Belle epoque scomparsa, fatta di rutilanti brillantini e dorati dirigibili. Che ben presto si tinge dell’oscuro di nazifascismi, in un tempo sincopato e inquietanti cori infantili. Forge è istrionico: recita, interpreta; c’è molto del lavoro quarantennale dei Laibach. Coi quali, i Ghost condividono il sarcasmo: la Ivy league (ossia il top delle università mondiali) è il nemico dell’Impero nazifascista in cui si ambienta Impera. La conoscenza, la libertà, l’educazione, la civiltà: antagoniste della cafona, stolida, sporca militarizzazione di Impera.

Impera, Ghost: recensione 1

Scivolando lentamente attraverso la delicata ballad Darkness at the Heart of my Love – che sarà apprezzatissima in uno stadio colmo di folle post-covid, soprattutto nel lunghissimo ed epico ending –, si nota un’enorme apertura all’elettrorock moderno: saranno forse gli Imagine Dragons?

Eppure, forse, la punta di diamante di Impera è Griftwood, terzultimo brano. La componente anni ’80 è potentissima: siamo in un album dei Blue Oyster Cult, prima che l’heavy metal venisse da loro peraltro inventato e ancora si chiamava prog; la teatralità è ciò che trascina il brano – un vero e proprio dialogo fra un dittatore ed il suo demonio ispiratore – se si esclude poi l’accorata preghiera alla Madonna nel bridge. I nostalgici di Meliora apprezzeranno. Il finale di Impera, Respite on the Spitalfields, è una ballad squisitamente prog rock dall’estensivo dubbing nella voce di Forge, e melody driven: il romanticissimo solo di chitarra sembra uscito dai primi lavori dei Dream Theater, così come il sentitissima crescendo finale.

Impera è l’ennesimo lavoro eccellente dei Ghost, sincretici del rock e del prog, sciacquati e battezzati nelle sacre acque del pop nordico – degli ABBA – ma capaci di mantenere elevatissimi standard compositivi e di avere sembra la propria firma perfettamente riconoscibile in ogni brano.

Impera intrattiene e diverte, e guadagnerà ancora di piu’ in fase live: è un album concepito per trascinare le folle, per spezzare la tensione parlando di diavoli, dittatori, licantropi. Una nota di demerito va al mixing: i suoni sono poco rotondi, ed in molti casi risultano artificiali e freddi. Ma la perfezione non è di questo mondo.

Giulia Della Pelle
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