Nel centenario della nascita, Carosone è più vivo che mai. E pensate, è di un cantante degli anni Cinquanta che stiamo parlando. Roba per vecchi, direte. No, roba per tutti, di tutti, semmai. Abbiate la compiacenza di seguirci. Vi sarà tutto più chiaro.
Carosone, la voce di Napoli
Napoli. Trovate voi un modo per descriverla. La città del golfo, del Vesuvio, delle isole che si stagliano all’orizzonte e che, all’imbrunire, paiono navigare in mezzo al mare. Napoli. La città dei quartieri addossati fatti di vicoli che si intersecano, si impennano e si disperdono nei meandri di un labirinto troppo grande per qualsiasi essere umano. Tutto questo è Napoli, ma c’è di più. Il cibo, l’ospitalità, l’entusiasmo e la malinconia. La cultura, la superstizione, l’umorismo e lo squallore. Davanti a questa selva di stimoli è difficile restare indifferenti. Provate a mettervi nei panni di un napoletano. Provate a ragionare con la sua testa. Provate ad affrontare la vita col suo spirito. Mica facile, eh? Perché, allora, non iniziate da un nome, una personalità che racchiude tutto questo e molto altro ancora? Lo conoscete tutti, ne siamo sicuri. Signore e signori, ecco a voi… Carosone!
La musica, un’alleata improbabile
Perché proprio Carosone? Perché proprio lui in mezzo a tanti validi rappresentanti? Ci vorrete scusare, ma la prima ragione vi potrà sembrare un po’ superficiale. Dateci retta, non lo è più di tanto. Esattamente un secolo fa, il 3 gennaio del 1920, nasceva a Napoli in vico dei Tornieri. Nato in una famiglia non troppo numerosa, Ottavio e Olga erano i suoi unici fratelli, Renato crebbe sotto l’influsso del padre. Antonio, così si chiamava, lavorava al botteghino del teatro Mercadante di Napoli e fu lui, forse, ad instillare nella giovane promessa l’amore per l’arte. Gli fece prendere lezioni private di pianoforte. Lo fece appassionare alla musica. E Renato, strano a dirsi per un bambino di quell’età, che sicuramente dovette farsi le ossa su romanze e brani di musica classica, si appassionò veramente. Poi la chiusura del teatro, la disoccupazione del padre e il rischio di ritrovarsi tutti sul lastrico. Fu lì che Renato decise: può una passione trasformarsi in lavoro? Sì, può, e tutta la sua vita sta lì a ricordarcelo.
I primi ingaggi
Quando non sei nessuno, se non il figlio di un bigliettaio squattrinato, la strada parte in salita, ma almeno di una cosa puoi essere certo: che quella è la strada da intraprendere. Il posto ideale era la galleria Umberto I, piena di cafè-chantant e tanti localini dove si faceva avanspettacolo. Partendo da qui, il giovane Carosone, che aveva all’incirca tredici anni, ottene i suoi primi ingaggi: fu pianista all’Opera dei pupi, dove si cimentò con l’Aida di Verdi, la Carmen di Bizet e il Guglielmo Tell di Rossini e dovette in più di un’occasione, come ricordò più tardi, “suonare il finale accovacciato sotto la tastiera del pianoforte per non prendere qualche scarpata in faccia”. Scarpate e pomodori erano la più alta forma di apprezzamento per quelle marionette che rievocavano le gesta dei paladini di Carlo Magno. Carosone capì e si cercò un altro impiego.
L’apprendistato di Carosone
Per tre anni lavorò nei Quartieri Spagnoli, alle dipendenze di E. A. Mario, autore di canzoni come La leggenda del Piave e Tammurriata nera. Fu questo il primo importante apprendistato. Per il compositore e paroliere, Carosone fece da ripassatore, cioè aveva il compito di far ascoltare ai cantanti i brani composti dal maestro al fine di trovarne uno che fosse disposto a interpretarlo e, perché no, inciderlo. Fu sempre in questi anni che si diplomò al conservatorio San Pietro a Majella di Napoli. Quando tutto sembrava andare per il verso giusto, qualcosa di nuovo si abbatté su di lui. No, niente di sconvolgente o di particolarmente drammatico. La novità, però, avrebbe richiesto fermezza e prontezza di spirito perché una nuova proposta di lavoro in qualità di pianista e direttore di orchestra in una compagnia che si stava formando lo avrebbe portato lontano, molto lontano.
In terra d’Africa
Era il luglio del 1937 e Carosone, appena diciassettenne, si imbarcò insieme ad altri compagni di ventura per quella meta assolata che avrebbe dovuto diventare la sua America e, al contempo, tenerlo lontano da Napoli per nove anni: l’Africa. L’ingaggio che l’aveva portato lì sfumò con un disastroso buco nell’acqua. Alla prima esibizione, il pubblico era pressoché assente e al promotore di tutto questo la sala vuota bastò per rinunciare ad ogni sogno di gloria. Fece le valigie e se ne tornò a Napoli, con chi lo volle seguire. Ma Renato, che aveva le idee chiare sul suo futuro di musicista, rimase. Suonò in Etiopia e in Eritrea, prima per gli italiani, al tempo del dominio fascista, poi prevalentemente per gli Alleati, quando quelle terre furono liberate. Rischiò la pelle, soprattutto per l’avversione che gli abissini nutrivano per gli italiani. Ma ci guadagnò anche, almeno due cose: un nuovo stile, che mischiava la musicalità tipica della tradizione partenopea a quella effervescente, ritmata del jazz d’oltreoceano; e una moglie, Lita, che riportò a Napoli nel 1946 con tanto di figlioletto al seguito.
Ancora sotto l’ombra del Vesuvio
Tornato nella sua città di origine si arrabattò suonando in vari locali di Napoli e Roma, finché, nel 1949, non arrivò la grande svolta, l’evento fortuito che plasmò l’immagine di Carosone come noi tutti oggi lo ricordiamo. Lo Shaker, un nuovo night che stava per nascere sul lungomare di Napoli, chiese a Carosone di formare un trio che suonasse il giorno dell’inaugurazione, prevista per il 28 ottobre 1949. Servivano un chitarrista e un batterista. Trovare il primo non fu difficile. Carosone dette fondo ai suoi contatti e rintracciò un musicista olandese, Peter Van Wood, morto nel 2010, che conosceva benissimo il jazz e, all’occorrenza, sapeva cantare in un ottimo inglese. Era ciò che serviva nell’Italia postbellica, dove il gusto era ormai orientato verso la moda americana imperante. Ma dove trovare un batterista?
Nasce il Trio Carosone
I giorni passavano e la data si faceva sempre più imminente. Fu il proprietario del locale a fornirgli la soluzione. Convocò un giovanotto occhialuto, noto per essere il nipote del famoso poeta Salvatore Di Giacomo. Un po’ goffo, dall’aria simpatica. Ma dov’era la sua batteria? A cromare, disse. Però, tranquilli, sarebbe arrivata giusto in tempo per lo spettacolo. Per dimostrare le sue capacità durante il provino gli bastarono piatti, bicchieri, posate e ogni sorta di stoviglia trovata un po’ per caso in giro per il locale. Sotto gli occhi basiti di Carosone e Van Wood, si mise a suonare con una maestria impressionante. Gegè Di Giacomo era il terzo uomo, e che uomo! Da quel giorno accompagnò Carosone per dieci anni, fino al ritiro dalle scene. E, anche quando il trio si trasformò prima in quartetto e poi in sestetto, con l’addio di Van Wood e l’avvicendarsi di diversi musicisti, Di Giacomo restò un punto fermo, artefice di trovate esilaranti divenute leggenda, prima fra tutte “Canta Napoli”, la formuletta che veniva recitata dallo stesso Di Giacomo e che annunciava l’inizio di molte canzoni del repertorio carosoniano.
L’arte dell’ironia
Di piccole formazioni che si esibivano nei night l’Italia era piena. Carosone adesso aveva la sua, ma doveva decidere, una volta per tutte. Passare la vita alla guida di una delle tante o diventare qualcuno che potesse essere ricordato per uno stile fuori dall’ordinario? Ancora non lo sapeva, ma il decennio che si apriva, quegli anni Cinquanta che avrebbero visto l’Italia ripartire e riscoprire libertà fino a pochi anni prima inimmaginabili, lo avrebbe consacrato tra i simboli della nuova musica leggera italiana. In Carosone convivevano molte anime ed è questo, forse, il segreto del suo successo. Da un punto di vista musicale seppe creare un felice connubio tra sonorità molto diverse fra loro. La canzone napoletana, fatta di sospiri e voci struggenti, si sposava col jazz, il blues, le musiche latinoamericane e atmosfere arabeggianti. Tutto era pensato per divertirsi e far divertire. Il pubblico le poteva ballare quelle canzoni o, se preferiva, riderci su. Tutto questo andava perfettamente a genio a Carosone. È in questa prospettiva che, all’inizio, riprese molti brani della tradizione o di altri autori e li rimaneggiò con arrangiamenti freschi, brillanti, oppure ne fece la parodia, come accadde a Ciribiribin o a E la barca tornò sola.
Carosone, le grandi collaborazioni e i brani indimenticabili
Serviva, però, qualcosa di inedito che potesse spingere la gente a dire: “Questa è di Carosone!”. E il primo cavallo di razza, quello che lo portò alla ribalta nazionale, fu Maruzzella nel 1954. La canzone, che in effetti non aveva niente dell’ironia della precedente produzione e che, anzi, si distingueva per una vena malinconica non così comune in Carosone, nacque dalla collaborazione con Enzo Bonagura e divenne ben presto un tale successo da ispirare addirittura un film.
La gallina dalle uova d’oro, però, portava un altro nome e sarebbe arrivata di lì a poco con una nuova, fortunata collaborazione: quella con Nicola Salerno, in arte Nisa. A questo sodalizio risalgono i pezzi intramontabili di Carosone, quelli che vi scoprireste a canticchiare così, dal nulla, pur non ricordando le parole. Tu vuò fa’ l’americano, Torero, ‘O sarracino, Caravan petrol sono forse i brani più famosi di questa straordinaria stagione.
Come dicevamo in apertura, ci sono mille motivi per cui, pur trattandosi di un cantautore degli anni Cinquanta, Carosone dovrebbe apparirvi familiare e attuale. A lui si deve un enorme contributo al rinnovamento della canzone italiana. A lui si deve il rilancio della canzone napoletana. E a lui, ancora, si deve una grande lezione di vita: essere quelli che si è, senza rincorrere mode che ci farebbero scivolare sempre più giù, verso il ridicolo.
Massimo Vitulano
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