Vecchioni ci ha regalato meravigliose canzoni e questo fa di lui uno dei nostri più grandi cantautori. Ma non si è limitato solo a quelle. Ha scritto anche romanzi, racconti, poesie. Il tutto con l’abilità dell’incantatore di serpenti, che ti rapisce e ti fa volare lontano, più lontano di quanto l’uomo sia potuto arrivare, e noi di Shockwave Magazine abbiamo deciso di raccontarvelo sotto un’altra luce.
Vecchioni, un uomo al di là delle etichette
È un vizio non troppo educato, quello di etichettare una persona sulla base di ciò che fa nella vita. Ma lo facciamo tutti. Parlando con la vicina di casa, a chi non è mai capitato di chiedere come stesse il figlio infermiere, meccanico o avvocato? E magari non sappiamo neppure come si chiami il figlio della vicina, quanti anni abbia o che tipo sia. Non sappiamo niente, persi nella solita, limitante routine. Lo stesso può accadere con un cantautore.
Lui è quello che scrive canzoni ed è già grassa, se è famoso, se ci ricordiamo quelle due o tre più note. Perciò anche Vecchioni, che di pezzi ne ha scritti, e di grande levatura artistica, non può esimersi dall’essere additato come “il cantante”. Male, molto male. Perché Vecchioni è uno di quelli a cui basta un semplice foglio bianco per tirare fuori delle parole che schiudono agli occhi storie stupende. Lo ha sempre fatto con le canzoni, gli riesce altrettanto bene coi libri. Provare per credere.
Vecchioni scrittore
Quando ha inizio l’avventura di scrittore? C’è una data, in effetti, che può essere indicata come punto di partenza. È il 1996 e in quell’anno Vecchioni pubblica la sua prima raccolta di racconti, Viaggi del tempo immobile. Ad essa seguiranno altre opere, prevalentemente in forma di romanzo o racconto. Le parole non le portano le cicogne (2000), Il libraio di Selinunte (2004), Diario di un gatto con gli stivali (2006), Scacco a Dio (2009), Il mercante di luce (2014), La vita che si ama (2016) sono solo alcune delle più rappresentative. Ciò che le accomuna è una tendenza a scompigliare le carte in tavola, ricostruire vite, di personaggi noti o di perfetti sconosciuti, giocare con le convenzioni per mostrare che ci sono più strade da seguire e mai una giusta che vada bene per tutti.
Del resto, non ce ne dimentichiamo, Vecchioni ci aveva già detto chiaramente cosa cercava nella scrittura quando in A.R. cantava: “Ribaltare le parole, invertire il senso fino allo sputo, cercando un’altra poesia”. Perciò non vi sconcertate se all’inizio lo troverete un po’ arzigogolato. È sempre il nostro Vecchioni, quello che siamo abituati ad ascoltare, quello che ci fa emozionare. Solo con una pagina in più, e ancora una, e ancora una…
Dalla parte del lupo
Esaminarle tutte queste opere sarebbe un’impresa avvincente, ma impossibile all’interno di un singolo articolo, vista la mole di spunti e suggestioni che solo un autore come Vecchioni sa dare. Per questo abbiamo deciso di soffermarci su una soltanto, cercando di dare uno spaccato del tipo di scrittura che si forma al di là delle canzoni e che a queste si allinea nel modo di pensare. Partiamo da una domanda: quanto ne sapete di fiabe?
Non cominciate ad aggrottare la fronte e a scuotere il capo. Non è una conoscenza accademica che vi si chiede. Vi basta andare di qualche anno indietro nel tempo, diciamo ai giorni in cui un genitore o un nonno ve le raccontava alla sponda del letto o in braccio sulla poltrona.
Chi non conosce Cappuccetto Rosso? Ebbene, com’era la storia? Una bambina attraversa il bosco per andare a trovare la nonna, un lupo la precede, si avventa sulla nonna, si traveste da lei e, infine, si mangia anche la bambina, prima che un cacciatore di passaggio arrivi e squarci il ventre del lupo consegnando alla fiaba il suo immancabile lieto fine. Ma che ne sarebbe se queste non fossero altro che fandonie? Cosa succederebbe se i ruoli si invertissero e il lupo diventasse la vittima di una ragazzina viziata che aveva architettato questo gioco di sostituzioni apposta per sbarazzarsi di un mansueto animale? Vecchioni inizia proprio così il suo libro e ciò che segue sarà altrettanto destabilizzante.
Quando l’autore entra nella fiaba
Nel Diario di un gatto con gli stivali sono contenuti sedici racconti con uno più lungo staccato dagli altri, al punto da meritarsi una sezione a parte. I protagonisti sono i personaggi delle fiabe, ma anche i loro autori, come accade in Fusi e refusi, dove in una sera parigina di fine Seicento qualcuno bussa alla porta di Charles Perrault e chiede allo scrittore di riscrivere la storia della Bella Addormentata nel bosco. Oppure come in Vigilia di Natale a Copenhagen, dove un giovane Han Christian Andersen siede disperato a fianco di un letto di ospedale piangendo la sciagurata sorte toccata alla donna amata che, a seguito di un incidente, perderà irreparabilmente l’uso delle gambe.
In entrambi i casi si nota la centralità dello scrittore, una centralità che passa dalla sua immaginazione e dal potere che essa trasmette all’uomo che sa farne buon uso, al punto da riuscire a cambiare ciò che era già stato scritto ( Fusi e refusi) o trasformare un destino crudele in una nuova avventura (Vigilia di Natale a Copenhagen).
Le favole sono alibi
Vecchioni dà la sua versione delle fiabe, riscrive dei testi che, nel corso del tempo, avevamo imparato a pensare immutabili, un po’ perché i libri ci hanno consegnato una storia scritta, un po’ perché quelle sono versioni epurate, che vanno bene per il pubblico infantile a cui si rivolgono e non rischiano di creare sconcerto. Ma Vecchioni, scegliendo di modificarle, stravolgendo completamente il testo, vuole ricordarci non solo che un tempo le fiabe venivano tramandate per via orale, dando la possibilità a qualsiasi narratore di apportare lievi modifiche, ma anche che questo era ed è un patrimonio di tutti. Nel Prologo così Vecchioni spiega le sue scelte:
“Così, quasi per gioco, ho voluto applicare alle favole il senso del dubbio, il gusto del contrario che uso in canzone, ipotizzando interpretazioni diverse da quelle tradizionali. È stato come rimischiare il mazzo di torti e ragioni, buoni e cattivi, e ridistribuire le carte.
Ho cercato di far uscire le favole da se stesse.
Perché ogni storia contiene il suo contrario.
Perché niente è come appare: le favole sono alibi.
E perché niente, infine, appare com’è: gli alibi generano altre favole”.
E noi, che anche nei periodi più neri, in cui un velo di incomprensione cala sugli occhi, continuiamo a vivere di storie, non possiamo privarci delle fiabe. Come non possiamo privarci degli scrittori, dei cantautori e di tutti coloro che interrogano la realtà e la trasformano. Perché farlo significherebbe perdere la fiducia in noi stessi e, di conseguenza, rinunciare una volta per tutte a sognare.
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