Rough And Rowdy Ways è uscito qualche settimana fa, si tratta del trentanovesimo album in studio di Bob Dylan. E il primo di inediti da Tempest del 2012.
In mezzo il buon vecchio Bob non ha certo poltrito: dalla surreale vicenda del premio Nobel ai tre lavori in cui ha reso omaggio al Tin Pan Alley, fino ai soliti tour senza fine, Dylan sembra avere più energie ora che nei suoi vent’anni.
Ma non è il caso di stare qui a fare l’ennesima storia del musicista, a maggior ragione visto che la sua vicenda artistica è ben lungi dalla conclusione; parliamo quindi di questo Rough And Rowdy Ways.
In pieno lockdown, quando nessuno magari ci pensava, è arrivata l’anteprima del disco, l’interminabile Murder Most Foul, una ballata di quasi 17 minuti.
Impostata su un bordone di archi e un malinconico piano, la ballata si avvale di un talkin’ blues di Bob, la cui voce con la vecchiaia acquista nuovo fascino; arrochita e scura, ma sempre sicura e sfrontata come negli anni della gioventù, pare una portentosa via di mezzo tra Leonard Cohen e Tom Waits. Il testo – zeppo di citazioni tra cultura alta e meno alta – prende le mosse dall’omicidio di Kennedy a Dallas, nel 1963. Pare una canzone su un passato lontanissimo, insomma, eppure tra una citazione di Nightmare On Elm Street, tra i Beatles e Marilyn Monroe, Dylan narra la perdita dell’innocenza dell’America.
Quella stessa America alle prese in questi giorni col Black Lives Matter e con le rivendicazioni delle minoranze bistrattate, eterno peccato originale del celebrato Sogno Americano.
Murder Most Foul è però posta in fondo a questo album che, a tutti gli effetti, è un doppio; e ci si arriva un po’ con l’affanno, come sempre coi lavori di Dylan. Ascoltare Bob Dylan non è mai uno scherzo, infatti; troppe le informazioni che ci arrivano al cervello, come siamo forse disabituati a una musica dai contenuti così sostanziosi. Altrettante le citazioni, in testi che dimostrano come ancora oggi la scrittura di Bob rimanga un mistero felice. A quasi ottant’anni l’artista di Duluth riesce ancora a stregare con le sue liriche oscure, criptiche ma sempre insuperabile nel procedere per immagini. E, come sempre, sembra quasi di vedere un film, uno di quelli sull’America più profonda, quasi fossimo davanti a una pellicola di Altman, magari tratta dai racconti di Carver.
In Rough and Rowdy Ways si parte con I Contain Moltitudes e, a livello musicale, siamo dalle parti dell’ultima trilogia che omaggia le radici della canzone americana.
Con una voce che gigioneggia tra maniera e sarcasmo, Bob Dylan snocciola una serie di citazioni, a partire da quella del titolo che omaggia il grande Walt Whitman: I’m a man of contradictions, I’m a man of many moods/ I contain multitudes.
Quasi una dichiarazione d’intenti, per l’artista che non ha fatto altro che cambiare idea per confondere fanatici e detrattori per tutta la vita. E un pezzo dove osa – e se non lui chi? – citare Poe, Anna Frank, William Blake, Indiana Jones e i Rolling Stones. Tutti in una sola canzone.
Si passa così alla bella False Prophet e si alleggeriscono i toni, iniziando il lungo flirt col blues che durerà per gran parte del disco.
La storia d’amore tra Dylan e il blues ha radici lontane, nei suoi inizi dediti al folk; in quasi tutti gli album migliori Bob ha inserito omaggi alla musica tradizionale nera, madre del rock’n’roll. Tributi sinceri e ligi alle regole in modo sorprendente. La band prende il sopravvento, assecondando con rigore e qualche slancio la voce scurissima di Bob Dylan, con la chitarra di Charlie Sexton che pare sempre sul punto di prendersi i riflettori, per poi ritrarsi all’ultimo, dopo qualche lick più aggressivo. E del resto gli arrangiamenti fatti di tanti fili pendenti che si riannodano senza concedersi il climax dell’assolo sono una cifra tipica del Bob Dylan elettrico, dai tempi di Highway 61 Revisited.
My Own Version Of You rimane ancora dalle parti di certe atmosfere blues cupe e decadenti, tanto amate da Bob fin da classici come Ballad Of A Thin Man; il testo è anche qui foriero di grandi soddisfazioni; dovrete però prendervi la briga di procurarvi le liriche e seguirle contestualmente all’ascolto. Lo abbiamo già detto, ascoltare Bob Dylan è impegnativo, ma farlo senza la dovuta attenzione sarebbe un peccato inaccettabile.
Il testo narra di un novello e surreale Dr. Frankenstein, tra citazioni, rime irreprensibili e la metafora di un artista che non ha ancora rinunciato all’utopia di plasmare un mondo forse migliore, certo a sua somiglianza.
Tra citazioni di Shakespeare – Well, it must be the winter of my discontent/I wish you’d’ve taken me with you wherever you went o Can you tell me what it means, to be or not to be?/You won’t get away with fooling me – e di Bo Diddley (quel You can bring it to St. Peter/You can bring it to Jerome che cita anche sé stesso), si arriva forse al più bel verso della raccolta: I’ll take the Scarface Pacino and The Godfather Brando/Mix it up in a tank and get a robot commando. Un capolavoro di citazionismo e sarcasmo.
I’ve made up my mind to give myself to you è di nuovo una ballata dall’incedere paurosamente lento, resa ancora più malinconica dai cori. La prestazione vocale di Bob Dylan è accorata, da brivido; quanti cantautori con un terzo dei suoi anni farebbero carte false per cantare così?
Black Rider, ballata scurissima che sembra sempre sul punto di decollare ma che non lo fa mai, retta da pochi colpi di chitarra e mandolino, è un altro pezzo da novanta della raccolta.
Black Rider è uno dei nomi con cui si allude a uno dei quattro cavalieri dell’Apocalisse e il testo pare quasi riecheggiare Il Settimo Sigillo di Ingmar Bergman, con l’impari partita a scacchi contro la morte.
C’è ancora spazio, in Rough and Rowdy Ways, per due pezzi blues; Goodbye Jimmy Reed è un omaggio, molto ortodosso, all’omonimo bluesman, mentre Crossing The Rubicon, col suo testo intriso di fatalismo e chitarre elettriche più aggressive, rende bene la statura anche solo vocale del Bob Dylan più blues.
Mother Of Muses – la Madre delle Muse, Mnemosine, la Memoria – parla direttamente a Omero, il padre della poesia; una moderna invocazione che torna a citare alto e basso, tra Omero e Elvis Presley. Key West, infine, chiude il disco prima della lunga invocazione di Murder Most Foul. Si tratta forse del pezzo più canonico e “moderno” del lavoro, l’unico con un vero ritornello.
Una lunghissima ballata che, sulla scia delle rotte dei pirati, cita la Beat Generation e la sottile speranza che idee e arte possano sopravvivere da qualche parte, magari proprio a Key West.
Rough And Rowdy Ways è un grande ritorno, un lavoro che rende piena giustizia al premio Nobel della letteratura Bob Dylan; un lavoro, però, che rischia di non avere il giusto peso in un momento di affanno della musica rock e pop, mastodontico per le capacità di concentrazione sempre più ridotte, specie da dedicare a un prodotto ormai desueto, quello del long plain.
Un capolavoro, insomma.
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