Esce l’11 settembre, per Dangerbird Records/Audioglobe, Yellow Coat, il sesto album di Matt Costa, cantautore americano da sempre diviso tra folk e pop.
La carriera di Matt prende le mosse nel 2003, quando l’allora 21enne pubblica una serie di EP che subito incontrano il favore degli addetti ai lavori.
Fa da spalla ad artisti influenti, da Jack Johnson a Modest Mouse, da My Morning Jacket ai Gomez. Nel 2005, con Songs We Sing, esordisce sulla lunga distanza.
Nel 2007 il suo singolo Mr. Pitiful viene scelto per una campagna pubblicitaria dell’IPhone, cosa che gli assicura una breve popolarità; stesso discorso per Astair, bel brano folk che viene inserito nella colonna sonora della serie Chuck.
La carriera di Matt, tuttavia, rimane confinata in quel limbo a un paio di passi dalla grande fama, sospeso tra indie/folk e pop.
Le influenze di Matt sono molteplici: si va dal folk anni ’60 di Donovan e Simon & Garfunkel a quello quasi impalpabile di suoi sodali come Jack Johnson; accenni di West Coast e passaggi che ricordano molto da vicino i Wallflowers di Jakob Dylan.
A tre anni dal suo ultimo lavoro, Santa Rosa Fangs, un concept album pubblicato nel 2017, il buon Matt si ripropone con questo Yellow Coat. Il lavoro è prodotto da Alex Newport (Death Cab For Cutie) e si compone di dodici pezzi. Per i testi che narrano in modo quasi “epistolare” la fine di una lunga storia d’amore, Matt si è ispirato ai numi tutelari di altre discipline. A Vincent Van Gogh e a A Life in Letters di John Steinbeck, suo riferimento letterario principale.
I suoni di Yellow Coat orbitano attorno a un delicato folk pop anni ’60, con una strumentazione che mischia il minimalismo della chitarra acustica agli archi e a passaggi di mellotron.
L’unica concessione a suoni più contemporanei in Yellow Coat è l’utilizzo di una drum machine, una Wurlitzer Sideman, che fa capolino qua e là, come nell’iniziale Avenal, che traccia efficacemente le coordinate dell’album.
Slow, il nuovo singolo, parte in modo piuttosto cupo e cadenzato, per cedere il passo ad atmosfere vintage più solari, affini a certo soul pop.
Let Love Heal parte con un accenno quasi tex mex che ricorda i Calexico: un pezzo che è un piccolo gioiello di delicatezza e melodia.
La successiva Last Love Song è invece la perla folk dell’album: solo una chitarra arpeggiata ad accompagnare e la voce carezzevole di Matt; la melodia ricorda un po’ la celebre Kathy’s Song di Simon & Garfunkel. L’arrangiamento si stratifica piano piano con l’aggiunta di eterei cori e di un basso che puntella il tutto. Sicuramente – con la precedente Let Love Heal – costituisce l’accoppiata più nobile dell’intero album.
Anche Jet Blake Lake, con la voce di Matt leggermente trattata e un’atmosfera da soul sofferto e vintage, mantiene il livello alto; a tratti pare di sentire un Timber Timbre meno inquietante e straziato.
La successiva Savannah è di nuovo una bella ballata pop che si avventura ancora più indietro nelle sue atmosfere vintage, con melodie e coretti che sembrano arrivare dagli spensierati States dei primi ’60, con melodie quasi Doo-Wop.
Un breve interludio strumentale introduce la titletrack, Yellow Coat, l’impermeabile giallo che campeggia sulla copertina e del disco.
Ancora una volta le atmosfere sono sfumate, quasi struggenti ma sempre a un passo dalla tristezza; pare che il destino di Matt Costa sia quasi quello di rimanere sempre a un passo dalla grande rivelazione, da quell’esplosione che potrebbe rendere il pezzo indimenticabile. E invece Matt rimane sempre lì, come se la sua cifra fosse proprio quella di non affondare mai completamente il piede sull’acceleratore, e a volte ciò non è detto che sia un limite.
Il lavoro si avvia alla conclusione, ancora senza grandi sussulti; When The Avalanches Come è un gustoso bozzetto folk che sembra quasi un traditional americano. Minimal ma molto azzeccato. La chiusura arriva con So I Say Goodbye, sghemba ballata dai colori beatlesiani, come se John Lennon cantasse un pezzo del McCartney post Beatles.
In definitiva, questo Yellow Coat è un lavoro che certo non si prenderà la testa delle classifiche e non farà epoca, ma chi la fa, ormai, nella musica? È tuttavia un lavoro delicato e onesto, rivolto a un pubblico dal cuore gentile e amante dei toni soffusi. Un disco che fa buona compagnia senza mai andare troppo sopra le righe.
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