Elvis, film distribuito in Italia da Warner Bros e uscito il 22 giugno, è stato accolto al Festival di Cannes dello scorso maggio da una standing ovation di dieci minuti. Il giusto riconoscimento per un film che lascia il segno.
Fin dalla prima scena possiamo riconoscere lo stile di Baz Luhrmann, il mitico regista di Romeo + /Giulietta (1996), Moulin Rouge (2001) e più recentemente de Il Grande Gatsby (2013).
Un film caleidoscopico, un racconto fosforescente della vita di uno dei più grandi artisti mai apparsi sulla terra, quell’Elvis Aaron Presley, che in circa venticinque anni di attività, rivoluzionò la storia della musica con la sua voce, il suo eclettismo musicale (il suo rock era influenzato dalle sonorità gospel e da quelle della musica country), le sue movenze, la sua incredibile presenza scenica, la capacità interpretativa e quella di dare la sua impronta ai pezzi, nonostante non scrivesse mai i testi da solo e che (come esattamente come per il suo mito James Dean) divenne un simbolo della sua epoca.
Luhrmann resta fedele al suo inconfondibile stile costituito da una regia dinamica, barocca, con i suoi tipici stacchi, con le sue zoomate, da una narrazione per lo più lineare, ma comunque velocissima e coloratissima.
Un film che coinvolge dall’inizio alla fine e la cui unica pecca, forse, è quella di non aver approfondito ancora di più la psicologia del cantante statunitense. Quello però forse sarebbe stato un altro film, perché qui in effetti viene dato più spazio al rapporto complicato e forse non completamente comprensibile di Elvis con il suo manager Tom Parker.
In effetti la voce narrante del film , è proprio quella di Parker (nato Andreas Cornelis Van Kuijk) che definisce se stesso come un imbonitore e che mai si assume la sua parte di colpa nel declino di Elvis Presley, ma che anzi arriva ad incolparne il pubblico per questo.
Se regia, scenografia (Catherine Martin, Karen Murphy), montaggio (Matt Villa, Jonathan Redmond), costumi (sempre Catherine Martin) sono eccezionali, possiamo ben dire che il valore aggiunto del film è il cast. Da uno degli attori “feticcio” di Luhrmann, Richard Roxburgh (molto efficace nel ruolo dell’ignavo e non si sa fino a che punto in buona fede Vernon Presley), a Olivia DeJonge, a Luke Gracy, a Kevin Harrison jr, a Helen Thomson.
Per non parlare dei due attori protagonisti: di Tom Hanks (Philadelphia, Forrest Gump, Il miglio verde, Salvate il soldato Ryan, Era mio padre, The Post, Il Ponte delle Spie) è già stato detto tutto e credevamo che non potesse dare di più. E invece no, perché il grande attore californiano ci ha abituato a delle prove magistrali, ma quasi sempre in ruoli positivi o comunque non completamente negativi. Qui invece diventa inizialmente la personificazione dell’ambiguità, e poi quella dell’avarizia, dell’uomo che non si ferma davanti a nulla per il proprio vantaggio, anche a costo di rovinare economicamente e non solo l’uomo al cui talento deve la propria fortuna.
Il gioiello però ha un nome: Austin Butler. La sua adesione al personaggio è totale, Butler non interpreta Elvis, lo diventa. Per capirlo basta vedere come il trentunenne attore statunitense riesca ad imitare i movimenti e la gestualità di Elvis Presley. Certo aiutano il trucco, i costumi, ma il lavoro di Austin deve essere stato certosino, come si vede soprattutto nei numeri musicali. La parte dello special di Natale, in cui lo si vede cantare If I can dream e quella finale con l’esecuzione di Unchained Melody del 1977è impressionante proprio perché ogni movimento è quello di Elvis. Per lui già si parla di candidatura ai prossimi Oscar, e non è un azzardo.
In conclusione, Elvis un film da vedere: una gioia per gli occhi, per le orecchie, per il cuore. Un film che è un sentito tributo ad un artista iconico e insostituibile, ma anche all’uomo, sognatore, ma insicuro e fragile purtroppo.
Segui quel sogno, dovunque il sogno ti possa condurre.(Elvis Presley)
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