Ieri mattina, il mondo dell’Arte si è svegliato sotto un cielo grigio, tra le cui nuvole s’intravede uno spiraglio messo lì da qualche essere superiore in attesa di accogliere un’anima così unica da meritare uno squarcio nel cielo.
Ezio Bosso ci ha lasciato, ed il dolore è così concreto da essere palpabile.
Un musicista, certo, ma quando la sofferenza per la dipartita affligge anche chi della musica non ne fa una questione di vita, è palese che stiamo parlando di qualcuno che la musica l’ha trascesa. Ezio Bosso ha dedicato la sua intera esistenza a questa specifica arte, ma nel 2016 ha reso possibile l’impossibile.
In una società il cui materialismo allontana dalla musica classica a favore della “musica da consumo rapido”, il Maestro da Sanremo incanta una nazione intera, se non il pianeta, mettendosi a giocare col pianoforte come un bambino con una clessidra, che ruota e capovolge perdendosi nell’astrazione del tempo con cui interagisce traendo da quella clessidra una via di fuga dal vincolo di un fiume che scorre, ticchettando, inarrestabile.
E chi ce lo doveva dire a noi, plebei dell’armonia e della melodia, che quella musica che immaginavamo rinchiusa in secoli passati sarebbe tornata, slegata dalle sue catene, per imprigionarci su un divano, immobili, ad ascoltare cinque minuti di pianoforte, e sentirci così persi da non riuscire più a capire se fossero passate molte ore o pochi secondi?
Non è questo quel mistero della musica che ci affascina?
Possiamo stare a ragionare sulla colpa di esserci accorti della bellezza di una musica dimenticata solo quando questa è tornata prepotentemente, anche se solo per una sera, a conquistarci come se un intero popolo si legasse ad un teatro la sera di una prima storica, o possiamo approfittarne per capire qualcosa che fino a prima non sapevamo.
Ovvero che il tempo, le ore, i minuti ed i secondi sono parole inventate dall’uomo per orientarsi in un concetto che esiste e non esiste paradossalmente allo stesso tempo, e che Ezio questo, senza dire una parola, ce lo ha impresso nella mente come un’incisione su una roccia.
E lo sapeva bene, che mentre noi stiamo a contare i secondi, lui coi sui battiti al minuto, con le sue frazioni all’inizio del pentagramma, gestiva le note affidando a ciascuna la giusta durata e viveva con quel concetto di tempo, fatto non da unità precise e indiscutibili, ma dalle decisioni che gli affidiamo per farlo scorrere più o meno velocemente, più o meno lentamente.
Perché il tempo non possiamo farlo scorrere a nostro piacimento, a meno che non diventiamo musicisti che sostituiscono all’orologio il metronomo dell’anima, ed impongono ad ogni avanzare l’importanza che merita.
E’ per questo che Ezio Bosso è diventato leggenda, perché ha fatto quello che è la musica nella sua accezione più inti-mistica: essere una comunicazione tra un’anima che parla ed un’anima che ascolta.
E per una sera tutti ci siamo accorti di avere un’anima, criminali e bravi cittadini, tutti abbiamo riscoperto di provare emozioni.
E’ per questo che non mi voglio soffermare sulla malattia, perché questa affligge il corpo, ed Ezio era anima all’ennesima potenza.
Non ti ho conosciuto, ma, dal cuore, non posso che dirti quanto ti sono grato: so che, quando voglio ricordarmi di avere un’anima, con la tua musica sono sicuro di centrare l’obbiettivo.
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