Sono passati 26 anni da quando Ilaria Alpi è stata assassinata a Magadisco, in Somalia, insieme al collega Miran Hrovatin, mentre faceva il suo lavoro: la giornalista
Quando decidi di intraprendere la strada del giornalismo non sai mai dove questa ti porti. Quello che però sai con certezza è che il percorso è ripido e insidioso, dove non c’è mai un traguardo vero e proprio da raggiungere, ma invece è costituito da piccoli obiettivi che si presentano tappa dopo tappa. E Ilaria Alpi questo lo sapeva, e lo sapeva bene. Proprio lei che nella sua vita non ha mai pensato di fare altro che la giornalista: prima con Paese Sera e L’Unità, poi passando in Rai. Proprio lei che aveva fatto della frase “l’unico dovere del giornalista è scrivere quello che vede” di Anna Politkovskaja la sua massima, e la metteva coerentemente in pratica in ogni servizio e in ogni inchiesta giornalistica.
Ilaria la Somalia l’aveva vista più volte, precisamente sette, e non sapeva che quella del 1994 sarebbe stata l’ultima.
Per lei quel posto era “quasi una vacanza”, così disse al telefono con la madre poche ore prima di essere uccisa. Ilaria e Miran erano andati a Mogadisco per un servizio apparentemente semplice e senza pericolo, ovvero avevano il compito di raccontare il rientro del contingente italiano impegnato nella missione umanitaria dell’ONU. Ma le cose non erano chiarae come sembravano. I due reporter si erano spinti su un’altra pista, si erano interessati di affari che per qualcuno dovevano rimanere nell’ombra, stavano indagando su qualcosa di molto più complesso, su una storia iniziata sulle coste della Jugoslavia e che li aveva portati proprio nel Paese africano per fare luce su ciò che stava accadendo.
Quello che avevano scoperto Ilaria e Miran era un traffico di rifiuti tossici, armi, tangenti e riciclaggio di denaro tra Usa e Somalia, con la complicità probabilmente della cooperazione italiana, dei servizi segreti e della CIA. Una verità troppo scomoda per venire alla luce, che avrebbe screditato non solo gli Stati Uniti – che prove sempre più schiaccianti vedono come artefici di un ingente traffico di armi, utilizzate prima nella guerra nell’ex Jugoslavia e poi nei conflitti del corno d’Africa – ma anche la stessa Italia, donatrice proprio di quelle navi che trasportavano armi e rifiuti tossici radioattivi nel paese africano.
Gli obiettivi di Ilaria Alpi e di Miran Hrovatin furono spezzati brutalmente a colpi di kalashnikov il pomeriggio del 20 marzo 1994, proprio mentre avevano finito una delle tante tappe del giornalismo e stavano per tornare nel loro hotel in centro a Mogadiscio, dove dovevano trasmettere i contenuti di un’intervista fatta nel pomeriggio, quella al “sultano di Bosaso”, Abdullahi Moussa Bogor, al corrente degli stretti rapporti intrattenuti da autorità italiane e il governo dell’ex dittatore somalo Siad Barre. I nastri del filmato dell’intervista si erano misteriosamente danneggiati durante quell’agguato e il fedele taccuino in cui Ilaria Alpi aveva annotato le risposte si era polverizzato nel nulla.
La libertà di stampa è il termometro della salute democratica di un Paese. Va coltivata e irrobustita ogni giorno e centrale è la responsabilità delle istituzioni democratiche affinché siano sempre promossi i principi della nostra Costituzione e delle dichiarazioni internazionali in argomento. L’uccisione di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin lacera profondamente, a 25 anni di distanza, la coscienza civile del nostro Paese e suona drammatico monito del prezzo che si può pagare nel servire la causa della libertà di informazione.
Sergio Mattarella
Del loro assassinio, anzi, della loro esecuzione si è detto tanto, anche troppo, soprattutto per cercare di depistare le indagini: tentativo di rapina o di sequestro trasformatosi in tragedia, vendetta per la presenza italiana in territorio somalo, addirittura si era ipotizzata una fuga d’amore. Si è detto tanto, tranne la verità, quella verità che Ilaria e Miran hanno cercato di raccontare e che talmente troppo esplosiva che non è emersa neppure dopo otto processi e quattro commissioni parlamentari, che come unico risultato hanno prodotto l’ingiusta incarcerazione di Hashi Omar Hassan, cittadino somalo e unico condannato per gli omicidi, che ha scontato 17 anni di carcere prima che gli venisse riconosciuta la sua innocenza, quell’innocenza sostenuta a gran voce perfino dalla famiglia Alpi.
Dopo più di 24 anni di indagini, processi e depistaggi, la verità sembra ancora un’oasi nel deserto da raggiungere. Anzi, a dirla tutta il caso pare prossimo all’archiviazione. Quella di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin è una pagina di storia ancora tutta da scrivere della giustizia italiana.
Alla memoria di Ilaria Alpi sono state dedicate strade e piazze, alla sua storia libri e programmi. Ma anche la musica, da sempre attenta alle questioni politiche-sociali, ha fatto la sua parte. Infatti, i Gang, la rock band italiana, hanno dedicato una canzone dal titolo Chi ha ucciso Ilaria Alpi, sulla vicenda che ha sconvolto il mondo del giornalismo, e non solo.
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