Fear Inoculum, quinta fatica dei Tool, è finalmente sbarcato nel mondo della musica, creando non poche discussioni tra gli addetti ai lavori e non ma ricevendo, in gran parte, il beneplacito del popolo ascoltatore
Tredici anni di attesa, tredici anni di speranze, di hype. Per i più, almeno, è stato così. Per evitare di cadere nel tranello dell’aspettativa che tutto rovina mi sono ben guardato dal crearmene alcuna, mettendomi pacificamente nella lista d’attesa di coloro che, in modo disinteressato, attendevano di capire a cosa avrebbe dato vita una band senz’altro geniale come quella composta da Keenan e compagni
I Tool hanno fatto la storia del metal, almeno in parte
Nulla da dire a riguardo, non si può dissentire. Sono entrati negli annali della musica con il loro stile crudo, grezzo, rabbioso, quasi tribale. Dotati di una delle sezioni ritmiche migliori della storia e di uno dei vocalist più eccentrici e apprezzati, il quartetto americano ha regalato perle di metallo fin dalla sua nascita, toccando vette altissime con lo storico Lateralus.
Dalla band autrice di pezzi come The Grudge e Vicarious è impossibile non aspettarsi una certa qualità. Il gioco dei Tool è stato astuto, profondamente astuto. Nutrire l’hype del proprio pubblico per poi rilasciare un prodotto in grado di conquistare quello zoccolo accanito di addetti al metallo che non aspettavano altro se non perdersi, nuovamente, in lodi sbrodate.
In parte, va detto, ci sono riusciti. Fear Inoculum è senza ombra di dubbio un album discusso ma in molti (forse troppi) lo hanno etichettato come un grande lavoro, annoverabile tra gli album migliori degli ultimi anni. Non potremmo essere più lontani dalla realtà.
Li ricordate i Tool di Lateralus vero? Le energiche bordate di chitarra, gli isterici cambi di tempo, le intelaiature di basso raffinate ed ipnotiche, le esplosioni sonore…
Mura cariche di potenza che impattavano sull’orecchio dell’ascoltatore come privi di un qualunque tipo di smorzo o compressione. Bene, dimenticatevi tutto.
Fear Inoculum è un album che fa del suo mantra la ripetitività. Lento, pachidermico. Un film d’autore polacco muto e sottotitolato, in bianco e nero, privo di colori e, soprattutto, difficilissimo da seguire. E non per l’eccessiva complicatezza dei pezzi ma, anzi, per la loro natura tirata e fin troppo basilare (la semplicità è meravigliosa, va però utilizzata nella maniera più opportuna e non è questo il caso).
La title track, singolo di lancio, è lo specchio perfetto per il resto dell’album. Un riff di basso ripetuto allo stremo se non con poche variazioni. Un’esplosione, timida, intorno ai sei minuti, incapace di destare alcun senso di stupore o movimento interiore. Poi, senza nemmeno accorgersene, ci si avvia alla conclusione.
Ciascuno dei sette pezzi contenuti in FI supera i dieci minuti, esclusion fatta per Chocolate Chip Trip, commistione di elettronica e soli di batteria ottima da ascoltare se si vogliono perdere quattro minuti e quarantotto secondi della propria vita senza aver davvero ottenuto nulla di produttivo.
Gli altri pezzi, per struttura e mood, non differenziano troppo dalla title track
Le sole a provarci, realmente, sono Descending, pezzo assolutamente meritevole di entrare a far parte di una qualsiasi top chart della band, e 7empest. La prima porta con se tutti gli stilemi più classici dei Tool che abbiamo imparato ad amare. La voce di Keenan (che sembra aver portato in Fear Inoculum quanto di buono appreso dall’ultimo raffinato lavoro degli A Perfect Circle, Eat The Elephant) si dispiega su un lento incedere di basso e chitarra, ipnotico ma non monotono. Carey scandisce ottimamente le tempistiche e i cambi di atmosfera. Fino ai sette minuti il pezzo si imposta come un graduale (e non monotono) crescendo che sfocia poi nell’epico, prima di affidare la conclusione ad una lunga coda fatta di soli e sincopi ritmiche che, va detto, lascia un poco di amaro in bocca.
7empest, ending e pezzo più lungo dell’album, è un rabbioso incedere di riff che, nei suoi 15 minuti sembra essere quanto di più vicino a ciò cui i Tool ci avevano abituato in passato. In qualche modo, però, nonostante l’estrema durezza e la qualità delle idee, il pezzo cresce insipido e privo del carattere giusto per stupire ed emozionare.
Non era una fotocopia di Lateralus quella richiesta ai Tool
I fulmini, in fondo, non cadono mai due volte su uno stesso luogo. Un cambio di rotta totale e coraggioso, il tentativo di osare ed usare le nuove vie offerte dalla musica contemporanea, sarebbe stato senza dubbio apprezzato. Non era, però, la conditio sine qua non per un prodotto di qualità. Avremmo potuto chiudere un occhio anche di fronte a un prodotto estremamente anacronistico, all’inseguimento delle loro produzioni passate. Quanto richiesto era, almeno, un album ben curato, con pezzi carismatici, idee, voglia di fare e di dimostrare, ancora una volta, la qualità di coloro che operano sotto a quel nome.
Non è una questione di gusti e nemmeno di aspettative che, ribadisco, erano a zero. Fear Inoculum, oggettivamente, si mostra come un album privo di carisma, ispirazione e idee. I suoni, super compressi, lo privano di qualunque picco sonoro, impoverendo la già poca dinamica presente nel lavoro. I pezzi, nella loro gran parte, sono strutturati come dei lenti incedere psichedelici, ripetitivi, quasi ossessionanti. Le poche esplosioni presenti sono timide, incapaci di rappresentare un picco. La produzione dell’album è quanto di più antitetico alla loro essenza. Mantiene dei suoni profondamente fedeli al loro storico ma appiattiti, incapaci di fondersi tra loro, di avvolgere l’ascoltatore creando un vero e proprio muro sonoro.
Anche ponendolo come un tentativo di avvicinamento a tendenze post metal/sperimentali e psichedeliche, Fear Inoculum rimane assolutamente indietro
Fallisce nel suggerire un’emozione, stimolare una reazione. L’impressione è quella di ascoltare un album non sentito da chi lo ha suonato, il prodotto di un’operazione di marketing, della necessità di rilasciare, dopo tante attese, del materiale, senza però avere davvero nulla da dire.
Nella vita, una delle cose più difficili da ottenere da qualcuno, è una sincera ammissione.
Aprire la bocca, parlare senza veli evitando di nascondersi dietro a ossute dita o semplicemente scomparendo sfruttando il muro benevolente di uno schermo. Ammettere è fondamentale, parlare ancor di più. Ci rende delle persone migliori, anche quando sbagliamo.
Sarebbe stato bello sentirsi dire dai Tool “Hey, non abbiamo più idee”, magari evitando di andare a spillare ai veri fan meritevoli di un buon album i novanta euro da pagare per un’edizione deluxe, sola versione sul mercato (abile mossa che profuma di disonesta truffa). Diciamocelo, io, da musicista, novanta euro non li spenderei nemmeno per l’album dell’anno. Per Fear Inoculum, e ne sono certo, anche cinque sarebbero già troppi.
Leggi anche
- Vola, Friend of a Phantom: recensione - Novembre 26, 2024
- Kingcrow – Hopium: Recensione - Settembre 22, 2024
- Manuel Gagneux di Zeal & Ardor su Greif: intervista - Settembre 4, 2024
1 commento su “Fear Inoculum, il discusso (ma non abbastanza) ritorno dei Tool”
I commenti sono chiusi.