The Holdovers di Alexander Payne – Recensione

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The Holdovers è la storia di Paul Hunham (Paul Giamatti), burbero e severo professore di storia, rimane per le vacanze invernali alla Barton Academy, liceo frequentato da ragazzi di famiglie facoltose Statunitensi. Tutti gli studenti partono tranne cinque ragazzi che dovrà supervisionare fino al ritorno dalle lezioni. Dopo difficili giornate sotto il rigore di Hunham, uno dei genitori dei cinque decide all’ultimo di andare a prendere suo figlio in elicottero invitando anche gli altri quattro.

Partiranno tutti tranne Angus Tully (Dominic Sessa) poiché sua madre non ha risposto al telefono per dare il consenso alla partenza. Quest’ultimo, dal fine intelletto, ma dal carattere ribelle, si ritrova così bloccato nel college vuoto solo col suo detestato professore e la cuoca Mary Lamb (Da’Vine Joy Randolph). Il film ha luogo nel 1970, nel pieno della guerra in Vietnam, e Mary è rimasta lì poiché vive il profondo lutto dell’aver perso suo figlio in guerra. Da questa convivenza forzata nasceranno scontri, litigi ma anche affetti e sentimenti nella solitudine di un’atipica pausa invernale.

The Holdovers di Alexander Payne - Recensione
The Holdovers di Alexander Payne – Recensione

La sceneggiatura, firmata da David Hemingson, al suo debutto come sceneggiatore di un lungo, ci mette nel tipico assetto dei film melanconici di Natale. La vita avviene inizialmente in un ambiente circoscritto dove la convivenza è forzata. I tre protagonisti vivono delle proprie difficoltà sociali: il prof è un uomo scorbutico senza famiglia o amici, la sua vita è Barton Academy e la sua disciplina segue i severi precetti del suo fondatore.

Angus viene abbandonato per il Natale dalla madre perché vuole restare in solitario col compagno. E Mary invece si reclude per metabolizzare la recente perdita. Veniamo così catapultati in una realtà fatta di freddezza, di distacco e di imposizione di Paul Hunham su Angus Tully. E la forza della scrittura sta nel prendere degli archetipi per ribaltarli con comicità e viaggi all’esterno e all’interno di ognuno dei personaggi.

L’arco narrativo viene rilanciato agli anni ’70 non solo narrativamente ma anche a livello estetico a partire dai titoli iniziali, ai toni, ai costumi ma soprattutto alla fotografia. The Holdovers, che si manifesta con la tipica grana della pellicola, è stato girato in digitale con l’Arri Alexa Mini e (momento boomer) questo ci fa comprendere quanto oramai la tecnologia sia avanti sull’imitazione. È di grande effetto la patina retrò ma, che a livello di movimenti e impostazioni del frame, prenda il distacco dal passato. 

E al di sopra c’è la mano di Alexander Payne, che deve uno dei suoi grandi successi alla vecchia collaborazione con Giamatti in Sideways (2004). Una delle (pen)ultime volte che abbiamo visto Payne in Italia è stato con Nebraska (2013), uno stupendo agrodolce on-the-road in bianco e nero. Anche questa volta il regista riesce a trasportarci nella crescita personale dei personaggi. E sceglie la strada della scoperta dei micro-cosmi che si scontrano ma che, con lo sviluppo, riescono a unirsi.

E se il calore a cui si arriva possa sembrare “accogliente” (aggettivo da evitare perché tanto odiato da Payne) in realtà questa storia non lo è. Si passa attraverso la durezza del passato che si ripercuote sulla socialità del presente. L’apertura agli estranei diventa la catarsi personale e così quella della audience che vive il disgelo emotivo in una forma di riconciliazione collettiva.

The Holdovers di Alexander Payne - Recensione
The Holdovers di Alexander Payne – Recensione
The Holdovers, che ha tutte le premesse di uno stereotipato film di Natale, compie un’evoluzione scardinando i consueti canoni del filone invernale. Dramma sì, ma non troppo. Comicità sì, ma il giusto. Il Natale, come momento avverso per molti, si trasforma in un diario sulla solitudine dove persone non congiunte, ma contingentate (frase molto Conte-Covid), coesistono a causa di forze esterne e arrivano a una maggiore scoperta della loro identità.

Forse la risoluzione, anche a causa di questo articolo, può risultare un po’ prevedibile, ma poco importa. Ciò che ci resta metaforicamente è la nascita dello straordinario Dominic Sessa, la crescita di Da’Vine Joy Randolph, che aveva brillato nel grottesco The Idol, e di uno splendido ritorno di Paul Giamatti dopo la collaborazione con Payne in Sideways. Vale la pena un passaggio dal cinema per vivere l’inverno in una storia “accogliente”

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