Ci sono incipit nella storia del cinema che restano indelebili. La veduta aerea di un hotel in montagna, Au revoir Shoshanna!, un Marlon Brando invecchiato con l’aspetto da elegante bulldog.
L’opening più terrificante degli ultimi anni di cinematografia, però, sebbene a Stanley Kubrick vanti il primato per quelli più emozionanti, va a Us di Jordan Peele. Film universalmente acclamato, nel 2019, vincitore di un Saturn e di uno Screen Actor Guild.
Una gabbia di metallo. All’interno, un coniglio. Occhi vitrei, orecchie morbide e allungate, pelo soffice. L’aspetto tenero e innocente di un leporide saltellante. Il nasino rosa che si muove su e giù, in un ciclo infinito. La visuale si allarga: altri conigli, bianchi e neri, impegnati nelle medesime attività. Una marcetta oppressiva, composta da Michael Abels. Quelle gabbie, che occupano la parete di ciò che all’apparenza è un’aula scolastica, che sparisce all’improvviso.
E’ così che inizia Us, ultimo film di Jordan Peele, noto al grande pubblico per Scappa – Get Out, film che gli valse, nel 2017, la candidatura al Miglior Film agli Academy Awards.
I Wilson sono una famiglia normalissima. Benestante, possiedono una casa al mare a Santa Cruz, in California. Sono composti da mamma Adelaide, ex ballerina di danza classica (detta Edie), interpretata da Lupita Nyong’o, da papà Gabe (Winston Duke), e dai figli Zora (Shahadi Wright Joseph), promettente ginnasta, ed infine Evan Alex (Jason Wilson). Adelaide è torturata da un ricordo: durante una tranquilla serata al Luna Park del molo, si intrufolò nella casa degli specchi, rimanendo terrorizzata dal proprio riflesso. Sparì per – forse – quindici minuti, se possibile, soffrendo poi per anni di disturbo da stress post traumatico. Per lei, infatti, tornare a Santa Cruz è una vera e propria tortura: paranoica per la sicurezza dei figli, che non perde mai di vista. Hanno due compagni di vacanze, o, meglio, i tipici conoscenti estivi malsopportati: la snob Kitty (Elisabeth Moss, già nota per Il Racconto dell’Ancella) e suo marito Josh, nonché le loro care figliole Becca e Lindsey. Chiaramente malsopportate anche dai figli dei Wilson.
Papà Wilson ha una barca, che adora: è un omaccione dal temperamento gentile, innamoratissimo della sua tremula moglie, che inizia a dare segni di squilibrio quando, nella notte, una volta messi a letti i figli dopo una giornata di mare, salta la corrente. Adelaide trova, dunque, il coraggio di confessare a Gabe il trauma subito da bambina – in cui, quell’altra bambina, uguale a lei, ma con una luce diversa negli occhi, la ghermiva. E sarebbe tornata a prenderla.
Si può moltiplicare il corpo, ma l’anima rimarrà inesorabilmente divisa fra entrambe le menti.
E’ così che esordisce una donna identica a Adelaide, con una famiglia identica alla sua, dopo aver sfondato la porta di casa, tranciato i cavi della corrente, distrutto quelli del telefono, sfasciatone le finestre; una donna identica, ma con una luce diversa negli occhi. Una voce più scura, una pelle tormentata, capelli sporchi, una tuta rossa da operaio e un paio di affilatissime forbici alla mano.
Us è un film che vive di scene madri: nella regia incredibilmente sapiente e matura di Peele vediamo la contrapposizione – neanche troppo forzata – fra bene e male, fra realtà e suggestione, in cui, infine, si perde il senso del libero arbitrio che crediamo di avere. L’unica certezza, in una notte in cui il gemello malefico che proviene dai peggiori incubi è uscito dal suo scantinato e viene a reclamare la casa che ha sempre sognato, è quella della famiglia: dell’amore viscerale per i figli, che va al di là della coscienza, dell’anima, dell’incapacità di governare i propri muscoli. Quei doppelganger, osservano con orrore i Wilson, quei mostri senz’anima che hanno invaso casa loro, non sanno parlare: grugniscono. Reclamando come barbari il posto nel mondo di sopra.
Fra colori eccessivi di Mike Gioulakis (collaboratore di Shyamalan di lunga data), Us vive anche di particolari. Nelle differenze che disumanizzano gli Incatenati: quelle tute rosso sangue, lo sguardo allucinato, la lucida violenza, la totale mancanza d’empatia se non nei confronti dei loro simili, dei loro consanguinei, del loro grande progetto. Hands across America: un mitico evento che si tenne nel 1986, in cui milioni di uomini e donne, asserragliati fra montagne, deserti, campi, pianure, si presero per mano nel tentativo di formare una catena umana che unisse la West e la East Coast: un grande sogno, quello degli Incatenati, per reclamare la loro terra. Eppure, ci dice quella donna che assomiglia a Adelaide ma che non lo è, sono fatti di carne e sangue anche loro.
Molto del valore cinematografico di Us di Jordan Peele si deve alla potenza letteraria della scrittura del film, che, ad ogni modo, ben calibra tale lirismo con la gestione thriller horror della regia e del ritmo, che è in generale piuttosto sostenuto, evitando però goosebumps anni ’80: come ho già detto, le spiegazioni delle allegorie che permeano il tutto sono lasciate a poche scene madri, tutte narrate da Red, l’Adelaide del sottosuolo. In mezzo alle fiamme scatenate da suo figlio Pluto, alter ego del baby Wilson, che, bestiale, nell’attenzione ai particolari che sostiene Us, è poco più di un animaletto che cammina a quattro zampe e ama il fuoco. Lupita Nyong’o, dunque, aggiunge, col suo carisma e la sua incredibile bellezza nonché duttilità sin dai tempi di 12 Anni Schiavo, un tocco d’eleganza innata alla già splendida poesia orrorifica della sceneggiatura di Peele, andando a creare non una, ma ben due donne forti, speciali: capaci di danzare, di connettersi l’un l’altra su punte di gesso nonostante i kilometri di terreno che le separano, di amare, di ribellarsi, di organizzare una rivoluzione. L’Adelaide di sopra, quella fortunata, quella invidiata, quella che ha trovato uno splendido principe azzurro, vestita di bianco, macchiato di rosso; l’Adelaide di sotto, occhi rosso sangue, denti sporchi, vermiglia come gli occhi di un coniglio. La simbologia che contorna Us è, per l’appunto, legata a due temi fondamentali: il sottosuolo, con tutto ciò ne consegue – il mistero, gli Altri, i Morlock, l’universo sottosopra al di là della tana del Bianconiglio – e il libero arbitrio. Cui ne è potentissima epitome, tanto da sfociare in un potente interrogativo, in modo quasi geniale nella sua naturalezza che, pur nutrendosi della sospensione dell’incredulità, ben si sposa col tema narrato: quanto libero arbitrio hanno, davvero, gli Americani? Quanta libertà c’è nella stranezza di una ragazza di colore che danza un passo a due? Nell’esser relegati a vivere una vita all’apparenza splendida, misero copione recitato da qualcun altro?
Peele, inoltre, gioca efficacemente sullo stereotipo della last girl degli horror, con la sua Adelaide, che non è una bambina, ma una donna adulta, madre di famiglia – rifacendosi così a classici degli anni ‘80 d’alto livello come Poltergeist, Shining, Lo Squalo; una donna che non è un coniglietto in gabbia, che non è più una bambina, ma che si sa muovere nei recessi oscuri, piastrelle e mattonelle, lettacci e classi di scuola, lavagne e gesso, di un mondo all’apparenza civilizzato, che è, però, figlio della volontà di controllo di qualcun altro ancora – chi?
Non è importante, ai fini della comprensione della potente tematica di Us, da un filmmaker e amante del cinema come Jordan Peele, capirne il significato, ma apprendere bene il significante e calarlo nel contesto attuale. Soprattutto, di come si scrive un horror nel 2019: colorato, allucinato, politico. Perché nulla è più terrificante della verità, quando risale dal sottosuolo per guardarti negli occhi.
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Recensione fantastica. Sei riuscita a fare chiarezza su tutto quello che non sono mai stato capace di spiegare in maniera chiara a chi mi chiedesse perchè trovo Us un film di qualità. Grande spirito d’osservazione.
Grazie mille!
Ps: Preferirei non mi leggesi più nella mente.
Lo dico per te…
Ciao Davide!
Ti ringrazio tantissimo per il commento. Fammi sapere quali sono i tuoi altri film preferiti: voglio mettere alla prova la mia chiaroveggenza!
Un abbraccio,
Giulia