Thomas Hobbes percepiva lo stato di natura come uno stato di caos totale. Sosteneva che non poteva esserci moralità perché tutti combatterebbero per la sopravvivenza individuale. Si genererebbe, quindi, quella sorta di bellum omnium contra omnes, “la guerra di tutti contro tutti”.
Squid Game, in un certo senso, incarna questa nozione e mette a fuoco il punto fondamentale hobbesiano, su cui si basa il mio ragionamento: la tendenza innata dell’uomo alla violenza.
In una realtà distopica come quella nella serie Netflix Squid Game, 456 persone demoralizzate e ai margini della società – disoccupati, poveri, indebitati, dipendenti dal gioco d’azzardo, disertori nordcoreani, lavoratori pakistani, malati terminali – sono invitate a partecipare a una serie di giochi per bambini da una misteriosa organizzazione. Coloro che perdono vengono uccisi all’istante in un graduale processo di eliminazione. I partecipanti possono lasciare il gioco in qualsiasi momento, ma solo se la maggioranza vota a favore.
La serie coreana non è una storia in cui l’umanità viene condannata a causa della sua innata avidità o egoismo, sebbene questi tratti emergano durante lo spettacolo. E’ una realtà in cui le persone fanno cose disperate perché si trovano in situazioni disperate, e il sistema sfrutta questa vulnerabilità per profitto e in disgustose dimostrazioni di potere.
Sicuramente, guardando Squid Game, da una parte possiamo trovarci davanti una sorta di campo di concentramento, in cui le regole sono rigidissime e il sistema è iper controllato da guardie con mitragliatrici in bella vista, pronti a sparare a coloro che disobbediscono. Ad ognuno di loro, inoltre, viene assegnato un numero, i vestiti sono sostituiti da tute uguali per tutti, dormono in letti a castello stipati, il cibo è scarso.
Dall’altra parte, il mio pensiero non può che riflettersi sulla formula hobbesiana del bellum omnium contra omnes. Mettendo da parte l’autoritarismo del sistema e gli sprazzi di solidarietà e piccoli atti di gentilezza tra i giocatori, quando mi sono trovata davanti a giochi come quello delle biglie, il tiro alla fune con un precipizio nel centro o la campana con un ponte di vetro in cui alcuni pannelli sono progettati per rompersi sotto i piedi, mi è stato impossibile non pensare allo stato di natura di Hobbes.
In fin dei conti, ognuno decide da sé come agire e con chi giocare, ed è giudice, giuria e carnefice del proprio destino. Tornando alla teoria del filosofo inglese, questa situazione può essere tranquillamente definita come “la condizione di mera natura”, uno stato di giudizio perfettamente privato, in cui si è costantemente in guerra con gli altri, una realtà conflittuale dove la vita umana si rivela misera.
Hobbes costruisce lo stato di natura da una serie di ipotesi empiriche e normative singolarmente plausibili. Per prima cosa, presuppone che le persone siano simili nei loro atteggiamenti mentali e che nessuno sia invulnerabile. Per seconda cosa, presuppone che le persone “evitano la morte” e che il desiderio di preservare la propria vita sia molto forte.
Detto ciò, il filosofo inglese attribuisce ad ogni persona nello stato di natura la facoltà alla libertà di preservarsi, che chiama “diritto di natura”. Questo è il diritto di fare tutto ciò che sinceramente si giudica necessario per la propria conservazione. Poiché è possibile che virtualmente qualsiasi cosa possa essere giudicata necessaria per la propria conservazione, questo diritto, teoricamente limitato, diventa, in pratica, un diritto illimitato a qualsiasi cosa o – come dice Hobbes – un diritto “a tutte le cose”.
Presi insieme, questi presupposti producono uno stato di natura potenzialmente irto di lotte e di divisioni.
Il diritto di ciascuno a tutte le cose spinge a gravi conflitti, specialmente se c’è competizione per le risorse, come quando in Squid Game il cibo non c’era per tutti e si è creato quella sorta di “guerra di tutti contro tutti” durante la notte. Proprio in quella sequenza, abbiamo assistito alla situazione in cui le persone temono naturalmente che altri possano invaderli o attaccarli e, quindi, razionalmente pianificare di colpire per primi come difesa preventiva. Nella serie tv coreana, inoltre, il conflitto – come sottolineava Hobbes – è stato ulteriormente alimentato dal disaccordo nelle opinioni religiose e nei giudizi morali.
Hobbes immagina uno stato di natura – che poi è quello che vediamo nella realtà distorta di Squid Game – in cui ogni persona è libera di decidere da sé ciò di cui ha bisogno, ciò che le è dovuto, ciò che è rispettoso, giusto, pio, prudente. E’ libera, inoltre, di decidere tutte queste questioni anche per il comportamento di tutti gli altri, e di agire in base ai suoi giudizi come meglio crede, applicando le sue opinioni ed idee. Il gioco della campana è l’esempio cardine di questa teoria.
Ma, voi, giustamente, direte: i giocatori in Squid Game hanno un’autorità che li governa.
E’ vero. Esattamente come abbiamo visto nella serie Netflix, nello stato di natura hobbesiano viene descritto quel fenomeno che si genera quando le persone si impegnano reciprocamente ad obbedire ad un’autorità comune, stabilendo ciò che Hobbes chiama “sovranità per istituzione”. Quando, minacciati da una o più persone autoritarie, si impegnano a proteggersi promettendo obbedienza, stabilendo la “sovranità per acquisizione”.
Questi sono modi ugualmente legittimi di stabilire la sovranità, secondo Hobbes, e la loro motivazione di fondo è la stessa: la paura, sia dei propri simili che di un autoritario. Il patto sociale comporta sia la rinuncia o il trasferimento del diritto di natura sia l’autorizzazione del potere sovrano.
Per concludere questa analisi, dico che Squid Game ha la lucidità di una parabola e la potenza di una fiaba medievale. Spinge e coinvolge lo spettatore fino all’ultimo minuto. E’ uno spettacolo filosofico e sulla morale, travestito da thriller sulla sopravvivenza.
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