A 3 anni dall’ultimo lavoro in studio, No Grave but the sea, gli Scozzesi Alestorm ci propongono il loro nuovo prodotto targato Napalm Records: Curse of the Crystal Coconut, già disponibile su tutte le piattaforme multimediali.
C’è da ammetterlo, una band dai toni pirateschi e fancazzisti come gli Alestorm raramente passa inosservata all’assiduo ascoltatore di metal: ritmi sostenuti, sintetizzatori di organetti, art work molto poco sobri di un bucaniere scheletrico e quell’irreprensibile accento scozzese di Christopher Bowes, hanno fatto sempre una garanzia per la ciurma scozzese, rendendoli immediatamente riconoscibili a primo ascolto.
Già con il precedente trascorso, abbiamo notato un leggero scisma nei loro schemi classici, rendendo il tutto molto più parodistico e goliardico; con questa premessa, come appare il nuovo genito degli Alestorm?
L’album venne presentato con 4 singoli, ognuno diverso radicalmente dall’altro: Treasure Chest Party Quest, che fece storcere il naso di molti per il drastico cambio di sound e per il video volutamente trash.
Tortuga, molto più godibile del primo singolo seppur la grande sonorità pop/house; mentre Fannybawes e Pirate Metal Drinking Crew riprendono, seppur leggermente, le frequenze dell’album Back Through Time (2011).
I fan degli Alestorm vengono spiazzati totalmente: alcuni non aspettano altro che l’uscita del CD, altri rimpiangono Black Sails at Midnight (2009) e Sunset On The Golden Age (2014). Nel mentre di ciò, i bucanieri scozzesi sorseggiano il loro rum non curandosi minimamente del malcontento generato.
Intanto, Chomp Chomp e Zombies Ate my Pirateship conducono l’ascoltatore verso un viaggio ai limiti dell’assurdo: i lyrics, in pieno stile Alestorm, sono assurdamente ilari e volutamente immaturi, come un vero e proprio canto pirata intonato sul ponte di un vascello, il tutto condito da synth che spaziano dal piratesco al ridicolo (in senso buono).
Mentre Call of the Waves e Pirate’s Scorn seguono le orme e le sonorità del lavoro precedente della band; menzione d’onore per Shit Boat (No Fans) che, in un minuto e quattordici secondi, racchiude la quintessenza strafottente di Curse of the Crystal Coconut.
Terra in vista! Stiamo raggiungendo la fine del viaggio propinatoci dagli Alestorm.
Se prima abbiamo parlato in maniera scherzosa dei nostri pirati preferiti, le ultime due tracce si staccano notevolmente dal resto del contesto, risultando (a mio avviso) le più riuscite.
Wooden Leg pt.2 (The Woodening), una piratesca suite di 8 minuti, che ci narra delle bizzarre peripezie di un capitano, ci introduce al calare dell’album; le sonorità sono leggermente più ricercate e “scure”, sembra quasi che gli Alestorm siano tornati sui loro passi e abbiano voluto dare al suo pubblico un ultimo assaggio del suo miglior nettare.
Grande chiusura, invece, rappresenta la canzone Henry Martin: un ri-arrangiamento di una canzone degli inizi del 17esimo secolo; una ballata dal sound molto da taverna diroccata e malfamata, quasi a lasciare un sentore mesto e malinconico all’ascoltatore
Con le vele ormai ammainate, tiriamo le somme di Curse of The Crystal Coconut. I pirati Scozzesi saranno riusciti a destare stupore in chi ascolta oppure sono colati a picco come la Queen Anne’s Revenge?
Siamo onesti: non ci troviamo di fronte a un album terribile e di orribile fattura.
Tralasciando quelle sonorità più “pop” onnipresenti, Curse of the Crystal Coconut si presenta davvero come un godibilissimo album con la promessa di non farsi prendere troppo seriamente, risultando proprio come il suo miglior punto di forza.
Tuttavia, per tutti quei fan troppo attaccati ai classici della band, l’ultimo lavoro degli Alestorm risulterà sciapo, privo di senso e “commerciale”.
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