Il 20 marzo del 1938 nasceva Luigi Tenco, protagonista di una delle più importanti e amare parabole della musica pop italiana. Dalla nascita agli anni del boom, fino alla tragica fine a Sanremo, tracciamo un ricordo del principe della canzone.
“Quando attraverserà/ L’ultimo vecchio ponte/ Ai suicidi dirà/ Baciandoli alla fronte/ Venite in Paradiso/ Là dove vado anch’io/ Perché non c’è l’inferno/ Nel mondo del buon Dio”
Fabrizio De André, a testimonianza della sua attitudine sempre “in direzione ostinata e contraria”, fu l’unico collega ad accompagnare Luigi Tenco nel suo ultimo viaggio. Quel lunedì 30 gennaio del 1967 c’era la gente comune, c’era la stampa, ma non i suoi colleghi più famosi; Luigi Tenco era rimasto un personaggio scomodo anche nella morte, come lo era stato nella sua carriera e in tutta la sua vita, fin dalla nascita come figlio fuori dal matrimonio di sua mamma Teresa.
“Nessuno dei celebri cantanti è venuto al funerale dell’infelice collega Luigi Tenco, e non è venuta nessuna cantante. Nessuno di loro ha mandato un fiore. Ecco il finale impietoso di una tragedia amarissima.” – scriveva Luciano Curino de “La Stampa” il giorno dopo: “Ogni tanto arriva un’auto di Milano, di Genova, di Torino e vi si cerca il cantante famoso. “Impossibile che non venga nessuno”, si dice. Non viene nessuno.”
Luigi Tenco oggi compirebbe 82 anni, e viene difficile immaginarlo da vecchio; magari avrebbe avuto successo e il suo talento sarebbe stato riconosciuto da pubblico e critica.
Se quel giorno, a Sanremo, non avesse preso la scellerata decisione di togliersi la vita, oggi sarebbe ancora ospite in qualche talk del pomeriggio, a cantare per la millesima volta “Mi sono innamorato di te”. Certo però è difficile pensarlo lontano da quell’immagine di ribelle ombroso, bello e triste, con gli occhiali da sole, con cui si è consegnato all’immortalità con le sue canzoni e con la sua vita, prima ancora che con la sua morte drammatica.
Aveva iniziato come strumentista, Luigi. Sempre guardingo verso lo star system, malfidente ma consapevole che chi avesse avuto qualcosa da dire sarebbe dovuto scendere a compromessi col sistema. Lui all’inizio suonava il jazz, la musica ribelle degli anni ’50; la musica della beat generation di Kerouac e Ginsberg, quella suonata nelle bettole dei bassifondi, dove chi aveva successo era guardato con sospetto. Poi era passato al rock’n’roll, quello ingenuo di provincia, con Celentano, Jannacci e Gaber.
Luigi Tenco era bravo a starsene per i fatti suoi, nonostante avesse tutto per sfondare: l’estetica, il fascino, il carisma e soprattutto il talento.
Per la musica suonata ma soprattutto per la parola scritta. I suoi esordi furono poco convinti e affini alla musica degli anni ’50, seppure con un certo gusto ricercato per gli arrangiamenti e per qualche tema un po’ più scomodo.
Debutta contemporaneamente con il primo album e al cinema, nel 1962. “La cuccagna” è una commedia leggera di Luciano Salce, fatta più per veicolare le sue doti di cantante, ma non disprezzabile. Il primo lavoro sulla lunga distanza, in un periodo che privilegiava i 45 giri, è dignitoso, anche se risente ancora troppo della tradizione. Siamo agli albori della “scuola genovese”, con Gino Paoli, Umberto Bindi, Bruno Lauzi e alla fine Fabrizio De André, come vessilli del nuovo cantautorato italiano.
Una musica nuova che, pur appoggiandosi a stilemi classici e arrangiamenti orchestrali lontani dalle novità anglosassoni, porta temi mai sentiti nel pop di casa nostra.
Tenco è tra i primissimi a intuire la portata rivoluzionaria di un periodo che culminerà con quel 1968 che non vedrà mai. Innamorato di Bob Dylan quando qui da noi ancora non lo conosce nessuno – tanto da cimentarsi in una improvvida cover di “Blowin’ In The Wind” tradotta con Mogol – medita di unire musica e impegno civile anche in Italia. In un mercato che, come detto, vende quasi solo i singoli, ha poco senso ricordare i suoi album, peraltro solo tre.
Eppure le sue canzoni sono rimaste, a partire dalla famigerata “Ciao, amore ciao”, denuncia dello spopolamento delle campagne, ferita a morte da un ritornello fatto apposta per vincere Sanremo.
Un tentativo di compromesso – forse l’unico – che però non accontentò nessuno. “Mi sono innamorato di te”, “Lontano Lontano”, “Vedrai Vedrai”, “Quello che conta” e tanti altri sono titoli che tutti abbiamo imparato a conoscere; citate in qualche film, o da qualche artista contemporaneo, reinterpretate più o meno bene nel festival Tenco a lui dedicato, le canzoni di Luigi sono entrate a far parte degli standard italiani.
Capossela, i Baustelle, De Gregori, ma anche l’infausto omaggio di Achille Lauro di qualche mese fa: se all’epoca tutti ebbero paura di mischiare il proprio nome con quello di un suicida, oggi ognuno fa il suo per appropriarsi di un pezzo del mito.
Ma oltre al Tenco delle ballate cupe (“scrivo canzoni tristi perché se fossi felice uscirei, anziché comporre”) e soffuse, esiste una discografia sommersa e di grande valore che ci presenta un autore ironico e musicalmente affine al nascente beat. “La ballata della moda”, in particolare, è un classico che ancora oggi – per dirla con Calvino – non ha smesso di dire quel che aveva da dire; Tenco prende di mira lo strapotere del mercato e l’illusione di libertà che governa le scelte degli ignari consumatori.
Il gesto che quel giorno di gennaio portò via il cantautore genovese d’adozione (nacque in provincia di Alessandria), rimane tuttora tanto inspiegabile quanto affine al personaggio.
Tenco era un uomo senza filtri, poco o per nulla incline al compromesso, quasi ingenuo nelle sue prese di posizione radicali. Tra mille indecisioni e per nulla convinto aveva deciso di partecipare all’odiata kermesse sanremese, spinto forse dalla “storia sbagliata” con Dalida o chissà, da debiti di gioco o semplicemente dal voler dimostrare di poter diventare un cantante di largo successo.
Oscure quanto improbabili ipotesi alternative al suicidio – aiutate da un’inchiesta condotta in modo scellerato e dalla sparizione dei nastri con la sua esibizione – fanno ancora oggi la fortuna di complottisti della domenica. Certo è che, secondo le testimonianze, Tenco cantò a Sanremo in stato di forte alterazione, forse ubriaco.
“Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho
dedicato inutilmente cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sono
stanco della vita (tutt’altro) ma come atto di protesta contro un pubblico che
manda Io tu e le rose in finale e ad una commissione che seleziona La
rivoluzione. Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao. Luigi.”
Le parole vergate dallo stesso Tenco nel biglietto d’addio non lasciano però
dubbi sulla motivazione del gesto.
E siamo alla fine. Come detto, eccetto De André e la moglie di Gino Paoli, nessun collega partecipò all’ultimo saluto, e Mike Bongiorno degnò la vicenda di poche parole senza nemmeno nominare Tenco, riprendendo la kermesse lì dov’era rimasta.
Quasi dieci anni dopo un altro omaggio di un grande cantautore, Francesco De Gregori, scrisse forse l’epitaffio giusto per Luigi Tenco, nella ballata “Festival”. Anche lui non lo nomina mai, eppure le sue parole tracciano precisamente il sentimento di quei giorni neri:
“E l’uomo della televisione disse:’Nessuna
lacrima vada sprecata, in fin dei conti cosa/ C’è di più bello della vita, la
primavera è quasi cominciata’.
Qualcuno ricordò che aveva dei debiti,/ Mormorò sottobanco che quello era il
motivo.
Era pieno di tranquillanti, ma non era un ragazzo cattivo./ La notte che
presero le sue mani/ E le usarono per un applauso più forte.
Chi ha ucciso il piccolo principe che non credeva nella morte?”
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