Se dovessi scegliere un aggettivo che potremmo utilizzare per definire Panther, la nuova fatica dei Pain of Salvation in uscita il 28 Agosto (Insideout Music), probabilmente sarebbe “spiazzante”
Con il suo quindicesimo album in studio il complesso progmetal capitanato dal magnetico Daniel Gildenlow decide, per l’ennesima volta, di cambiare vesti indossando un approccio musicale nuovo ma coerente, in quanto ad evoluzione, con quanto mostrato dall’acclamatissimo predecessore In The Passing Light of Day.
Mettiamo subito le carte in tavola. Non sono mai riuscito ad apprezzare a fondo i Pain of Salvation, non riconoscendo nei miei gusti alcuni elementi del loro stile e trovando, spesso, i loro pezzi come delle ottime idee a cui “mancava sempre qualcosa”. Una sensazione, ovviamente, prettamente soggettiva ma che, con Panther, è andata tremendamente ad affievolirsi riuscendo a penetrare anche nella mente di un ascoltatore “potenzialmente scettico” come il sottoscritto.
Traviato dall’ascolto dei singoli rilasciati ho creduto, fino al momento in cui ho potuto premere play sull’anteprima dell’intero album, che mi sarei ritrovato di fronte ad un lavoro dal taglio prettamente elettronico e sperimentale. Con Panther, di fatto, ci ritroviamo per l’ennesima volta di fronte a dei Pain of Salvation all’esplorazione di nuovi astrusi modi di costruire sound e fare musica ma, e va detto, questa ricerca non è unicamente focalizzata sull’”emisfero elettronico”, anzi.
In un mondo dove “cani e pantere” costituiscono la distinzione tra “persone normali” e “fuori dalla norma”, con i primi come sempre impegnati nella soppressione dei secondi, Panther si evolve e divincola
Rcconta con sonorità crude e talvolta estremamente grezze un ipotetico scenario cittadino dove la vita delle pantere si intreccia con quella dei cani in una danza che, in tutta la sua drammaticità, si presenta come simbolica effige della società moderna.
Dramma e tensione sono proprio tra gli elementi fondanti dei 53 minuti di riproduzione di Panther, un lavoro in grado di mantenere alta l’attenzione dell’ascoltatore riuscendo, tra l’altro, a colpire a fondo su un piano più emotivo nonostante le “stravaganze sonore e musicali” presentate, anche questa volta, da Gildenlow e soci.
Delle stravaganze, va detto, che poco hanno a che vedere con il virtuosismo funambolico del moderno progressive metal ma che, anzi, si relegano più a scelte strutturali dei pezzi, sonorità, talvolta scelte armoniche, calcolate dissonanze e sincrasi tra approcci musicali apparentemente distanti tra loro.
E’ frequente, di fatto, durante tutto Panther l’alternarsi di sonorità spiccatamente elettroniche, ondulanti tra l’industrial, il noise e molto altro, con l’innesto di chitarre acustici o pianoforti. Una lotta tra due mondi differenti dove un lato spinge l’”accelleratore” su di una fredda e futuristica contemporaneità mentre, l’altro, frena insistentemente verso il calore di suoni più intimi e “classici”.
Come sempre, ovviamente, la grana sostanziale dei pezzi è sempre piuttosto varia, nonostante il ritorno di alcune caratteristiche fondamentali a costituire la base di Panther
Le insistenze ritmiche “alla Leprous” (LINK alla recensione) della tartassante opening Accelerator calano subito l’ascoltatore in un microcosmo dove la durezza del metal e la matematica di ritmiche sincopate si vanno ad intrecciare con elementi sintetici ed elettronici dando vita ad un pezzo carismatico ed emotivo.
Abbandonata la martellante Accelerator uno “slidato” giro di chitarra acustica ci introduce nella conturbante ed orientaleggiante Unfuture. Elementi acustici ed uno uso al contagocce di un’elettronica dalle tinte quasi industrial costituiscono un pezzo che nella sua ripetitività finisce per mostrarsi come un mantra esasperato, immersivo e angosciante il cui finale ci abbandona poi alle gelide sonorità di Restless Boy. Il secondo singolo estratto da Panther è, di fatto, uno dei pezzi meglio riusciti dell’album.
L’intrecciarsi di sintetizzatori con una delicata ma cadenzata ritmica trasporta l’ascoltatore in un pezzo dalle sonorità più rilassate e, allo stesso tempo, opprimenti. Il calmo evolversi del pezzo, spezzato da un riffing ritmico, martellante e frenetico, esplode poi in un finale dove bordate di chitarra, basso e batteria, incastrata su una voce filtratissima e urlata vanno a comporre un exploit di contenuta rabbia.
Tra chitarre acustiche e pianoforte si evolve invece Wait, pezzo dove un’ascensione di climax costante sostenuta da un ripetitivo arpeggio va poi ad esplodere e abbandonarsi ad un intermezzo di dissonanze e suoni al limite della gradevolezza prima di un ending pieno, esplosivo, emotivo e compatto. Con Keen to Fault la commistione tra elementi elettronici, acustici e raggiunge la sua massima espressione con un pezzo schiettamente prog con reminiscenze a Dream Theater e i Porcupine Tree (Link).
Messo alle spalle il breve intermezzo di Fur, ci ritroviamo poi nell’elettronica title track Panther, pezzo dove i Pain of Salvation si travestono da Rage Against the Machine con leggerissimo gusto di System of a Down con una solida base di sintetizzatori e chitarre a sostegno di una voce quasi rappata. Il tutto condito da melodie e cori dal gusto schiettamente mediorientale.
Con Spieces ci ritroviamo di fronte ad una sorta di power ballad che, intima e acustica nella sua prima metà, va poi ad esplodere e aprirsi con l’implemento di basso e chitarra distorta senza, però, portare mai a nulla di notevole o sorprendente.
Il finale dell’album è affidato invece all’epica Icon, un vero e proprio rollercoaster di intensità dove sezioni distorte ed elettroniche si alternano con delicati e commoventi intermezzi piano e voce dal tono intimo, poppeggiante e toccante.
Dopo le prime bordate di calibrata aggressività dell’introduzione il pezzo si slancia in un climax ascendente lentissimo in grado di portare, con linee vocali e melodie delicatissime ed orecchiabili, ad una fragorosa esplosione che, seguita da un solo di chitarra dal gusto vagamente Floydiano, dal suono caldo e coinvolgente, slancia verso un finale nuovamente infuso sonorità opprimenti e angosciose dell’introduzione.
Muovendoci velocemente verso le conclusioni, la prima cosa da dire è che Panther è un album che necessita di essere ascoltato (varie volte) in cuffia
Pensavo fosse solo una prima impressione superficiale ma, dopo più ascolti, non ho potuto far altro che non notare la povertà del mastering di un album che, nonostante nasconda tanto in se, ascoltato su un impianto stereo “medio/decente” non rende come dovrebbe lasciando nascoste il grosso delle sue “perle” . Di fatto se pezzi come Accelerator e Restless Boy potrebbero sembrare piuttosto piatti ad un primo ascolto, inforcate le cuffie sarà impossibile non notare la poderosa potenza delle evoluzioni strumentali studiate da Gildelow e soci.
Una potenza, comunque, che emerge solo a metà. Di fatto, dopo il master, ciò che più perplime sta nei suoni di batteria e chitarra. La prima asciuttissima, secca e troppo presente, la seconda evanescente e spesso coperta dalla sezione ritmica, dando vita ad un sound nel complesso molto grezzo, a tratti sfilacciato e che non valorizza al 100% le buone idee musicali contenute nell’album affievolendone la bontà dell’esperienza.
Nonostante ciò con Panther i Pain of Salvation sono stati in grado di produrre un album lontano dai virtuosismi o dalle “stravaganze” funamboliche del progressive moderno, dove la crescita, lo studio e l’evoluzione di suoni e sensazioni la fanno da padrona dando vita a commistioni non solo atipiche ma, soprattutto, funzionali. Il mix tra elementi acustici ed elettronici, controbilanciato dall’approccio più classicamente metal della band, riesce benissimo e si presenta anche come un’opzione fresca e “fuori dalla norma”.
I pezzi, strutturalmente semplici, sono forse troppo “ripetitvi” con una composizione che, per scelta, va a calcare la mano sulla riproposizione ad libidum di temi, ritmiche o sonorità durante la singola traccia senza puntare, con arrangiamenti piuttosto minimali, a grandi evoluzioni o sconvolgimenti. Una scelta rischiosa ma che, studiata a modo, non diviene difetto ma anzi caratteristica fondante di un lavoro dal grande potenziale musicale e comunicativo, dove anche i sound più freddi sono in grado, alla fine, di aprirsi rilasciando il loro “messaggio”.
In conclusione, con Panther ci ritroviamo di fronte ad un ottimo capitolo di Progressive Metal, intenso ed emotivo, in grado di portare freschezza ed una ventata di nuovo al genere nonostante, comunque, la natura non perfetta di un lavoro che, come detto in apertura, lascia dietro di sé un leggero senso di “incompletezza”.
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prduzione pessima…nonostante l’album in se non mi dispiaccia…ma gli preferisco il predecessore
ad ogni modo sicuramente da ascoltare più e più volte per assimilarlo