Porcupine Tree – Ci sono periodi nella vita di ogni creativo in cui riuscire a mettere la propria anima e la propria idea in arte viene tremendamente facile. Le idee, le parole e i suoni fluiscono con naturalezza come fossero una sorgente d’acqua dando vita, spesso, a figli di cui non si può essere altro che estasiati. Poi, invece, ci sono periodi in cui quella naturalezza scompare, in cui l’opera creativa sembra un monte insormontabile e in cui sembra di dimenticarsi come si fa il proprio lavoro
Si sa, non vi è buona arte senza naturalezza, e proprio in questo periodo so bene cosa significhi avere i boccaporti “chiusi”, essere incapaci di produrre qualcosa con la leggerezza naturale di chi sa dove vuole andare o che, quanto meno, sa che arriverà da qualche parte. Proprio in questi momenti amo rifugiarmi nei “beniamini” e mentori musicali che mi hanno fatto scuola e accompagnato a lungo, legando a loro molti ricordi dei momenti passati, li dove tutto sembrava più bello, nuovo e ricco di possibilità. A titolo di ciò, non si può non parlare dei Porcupine Tree.
A differenza degli artisti già trattati in precedenza, come per esempio i Contortionst o i Bent Knee, il complesso progressive rock inglese è ben più datato e, ahimè, ormai lontano dalle scene, vedendo la sua mente principale, un certo Steven Wilson, ormai totalmente assorbito nella sua carriera solista (che a sentire le recentissime produzioni da poco rilasciate sta prendendo delle vie piuttosto dubbie).
Attivi dalla prima metà degli anni 90, la carriera dei Porcupine Tree è ricca di perle, album di pregio, capolavori di assoluta musica
Un progetto singolare nella sua natura di confine tra lo psichedelico, il rock e il metal, in grado di fondere a se molteplici differenti elementi creando qualcosa di unico, intimo, personale, senza precedenti e anche senza un seguito.
Difficile ripetere quanto fatto dai Porcupine Tree, un complesso che è stato in grado di segnare con forza brutale quella che è la storia musicale del progressive moderno in un modo a dir poco unico. Nati come progetto fittizio creato da artisti fittizi, frutto della fantasia di un già eccentrico Steven Wilson, l’albero di porcospini ha visto nella sua line up artisti di calibro a dir poco squisito. Basti pensare alle tastiere di Richard Barbieri (ex Japan), al basso di Colin Edwin (attualmente impegnato negli Ork assieme al chitarrista dei Marta sui Tubi ed un certo Pat Mastelotto), o alla batteria di Gavin Harrison, ora addetto alle pelli dei Pineapple Thief (altro gruppo destinato a finire in questa rubrica) e noto tra i più virtuosi batteristi al mondo, più che degno sostituto, oseremmo dire, del suo predecessore Chris Matiland
Ci sarebbe davvero troppo da dire su dei musicisti in grado di dare vita a capolavori del calibro di Arriving Somewhere But Not Here (rileggere il secondo paragrafo dell’articolo per trovare la citazione), Anesthetize, Trains o Buying New Soul. L’esperienza musicale proposta dal mastodontico quartetto inglese è tra le più singolari del panorama moderno. Momenti di apertura acustica improvvisamente interrotti da muri di chitarre distorte, tempi composti e acrobazie ritmiche, sintetizzatori ambientali e dal timbro unico barberiano, giri di basso ipnotici e pezzi dal taglio così pop dal poter ritrovare la sequenza di una Piano Lessons persino nel giro di basso della ben più famosa Dani California dei Red Hot Chili Peppers.
Steven Wilson, personaggio dal dubbio carattere e spesso protagonista di uscite non troppo gradevoli (chiedere a Marco Minneman per ulteriori approfondimenti) è uno di quei pochi e rari artisti baciati dalle muse dell’arte e dell’idea, su questo non vi è dubbio. Il supporting cast, però, era di tutto rispetto e forse molto meno unicamente supporting di quanto tutti noi potremmo pensare (e di quanto lo stesso Steven vorrebbe ammettere). In fondo è facile fare della buona, anzi, ottima musica, quando si hanno a disposizione artisti d’eccezione in grado di poterti svoltare l’idea con un suono, un’intuizione, un accordo. Ti piaceva vincere facile eh Steven?
La carriera dei Porcupine Tree, in breve, potrebbe essere divisa in tre macro filoni
Gli esordi erano votati ad una musica formata da un misto di psichedelie e progressività in grado di far pensare a mastodonti della storia come i Pink Floyd, ma con qualcosa di nuovo e fresco. Era chiara l’ispirazione (per quanto da Steven Wilson costantemente negato) ma noi non vogliamo fargliene una colpa. Il risultato è ottimo e da qualcosa si deve pur iniziare.
Passando al secondo periodo, abbiamo una singolare pausa “pop”, quella di Stupid Dream e di Lightbulb Sun, album leggeri, ricolmi di orecchiabilità ma non per questo meno eclettici o scevri da pezzi chiaramente progressivi, come Don’t Hate Me o la lunga Russia on Ice.
Infine, nei primi anni 2000, arriva la svolta Metal
Malandrina è stata, probabilmente, la collaborazione in veste di produttore tra Steven Wilson e gli Opeth, che frutterà negli album Blackwater Park (2001), Deliverance (2002) e Damnation (2003). Così, proprio nel 2003, arriva uno degli album perla dei Porcupine Tree: In Absentia. Così tra freschissimi momenti di chitarra acustica e brutali martellate chitarristiche prende il via la svolta “dura”, accompagnata da una notevole maturità musicale in grado di poter fissare il quartetto inglese tra le pietre miliari della musica progressive.
A seguire altri due must listen, Deadwing e Fear of a Blank Planet. Nel secondo, rilasciato nell’ormai lontanissimo 2007, è possible trovare il progressive porcospiniano nella sua forma più alta e probabilmente coraggiosa, basti pensare alla storica suite di 17 minuti: Anesthetize.
A concludere la carriera dei Porcupine Tree, come fanalino di coda, troviamo quel The Incident da molti apprezzato ma decisamente non all’altezza dei suoi predecessori, nonostante anche in esso la presenza di pezzi del calibro di Bonnie the Cat (altresì, a scuola di poliritmie con Gavin Harrison), Remember Me Lover ed una brillante cover dei Pink Floyd chiamata Time Flies…ah no, è un pezzo originale. Perdonatemi.
Una chiusura in sordina quella dei Porcupine Tree che, dopo il 2009, non torneranno più a farsi vedere, abbandonati e “disprezzati” dalla loro testa che preferirà lasciar morire il progetto inseguendo una carriera solista che, in ogni caso, ha regalato al mondo della musica progressiva momenti di estrema qualità.
I Porcupine Tree, però, rimarranno sempre il punto più alto della carriera di uno Steven Wilson che, assieme ad altri tre musicisti straordinari, è stato in grado di segnare un’era e portare a scuola musicisti su musicisti.
Quasi dimenticavo, non pensiate nemmeno per un secondo di ritrovarvi di fronte a “musica tecnica”. Anzi, con i Porcupine Tree siamo all’apice della semplicità esecutiva, impreziosita però da una profondità di arrangiamento, da una capacità di orchestrazione e da una genuinità di sonorità e ideali che sono in grado di far rabbrividire i più grandi virtuosi dello strumento. Ciò a dimostrazione del fatto che per segnare un’epoca, un genere, una storia, non serve necessariamente l’impegno da circense dello strumento, ma bastano le idee, le intenzioni, l’orecchio e la voglia di stupire.
Tra meravigliose scelte armoniche, riff semplici ed efficaci e linee vocali perfette nel loro essere al limite della semplicità assoluta, i Porcupine Tree sono stati in grado di produrre stupore rimanendo intellegibili, sinceri, spesso orecchiabili e naturali.
Ed è proprio questa la naturalezza a cui la musica dovrebbe tornare a far riferimento. E’ proprio questa la naturalezza a cui ogni musicista dovrebbe tornare se ha intenzione di stupire. Probabilmente non vedremo mai più una commistione tra naturale sincerità e singolarità come quella rappresentata dai Porcupine Tree. In fondo, però, va bene così. L’olimpo è solo per coloro che riescono a mettersi in sintonia con quelle melodie chiave per il suo accesso e che da li, poi, saranno in grado di dare inizio a qualcosa di meraviglioso.
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