Stone, Baroness: recensione

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Stone è il nuovo album dei Baroness, band USA: è uscito il 15 settembre 2023 per Abraxan Hymns.

Approcciare un disco dei Baroness è come partire per un lungo, disorganizzato viaggio: la sorpresa, bella o brutta, è sempre dietro l’angolo. Dal grunge, allo stoner, passando per note gothic, Stone è una coloratissima narrazione di chitarre impazzite – quelle di Gina Gleason, fra Chuck Berry e i Fleetwood Mac.

Stone segue il fortunato Gold & Grey del 2019, ma stravolge completamente le carte: ci troviamo di fronte ad un suono più ruvido, volutamente sporco – come i bagni di un club underground dalla brutta amplificazione e che, post concerto, fa fischiare le orecchie. È questa la sensazione che Last Words, il primo vero e proprio brano dell’album, lascia, dopo la intro Embers: che ci sia qualcosa di strano nella traccia, che, sebbene orecchiabile, è leggermente fuori focus – volutamente o meno? L’interessantissima ritmica delle batterie, eccezionalmente lavorata, si intreccia in modo sconclusionato con la linea vocale di John Dyer Baizley, che risulta distante, come filtrata attraverso un barile di metallo, un leggero eco di terriccio a scolpirla. Come in Memoria, un suono difficile da ricreare eppure che resta ben impresso.

Le schitarrate tremolanti chiudono Last Word, che, in sostanza, è una intro che incuriosisce parecchio: la successiva Beneath the Rose, che è un brano Baroness classico fortemente stoner si lascia ascoltare ma non convince. Choir, che dovrebbe avere sonorità vagamente sataniche, date dalle risatine lo-fi e dalla voce vagamente inquietante che narra di brutture cadaveriche e strani rituali, risulta abbastanza piatta, un vino diluito, nonostante i bei synth e giri di chitarra aggiunti in complesse intelaiature ipnotiche. Il finale riprende l’idea del filtrare i suoni attraverso barili di metallo, in un lunghissimo, interminabile, minuto di sussurri e tamburi metallici.

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Un guizzo di gioia è The Dirge, un minuto e mezzo scarso di ballad country alternative, prontamente sostituita da Anodyne che riprende lo schema riff-linea vocale fuori focus-bridge dallo strano eco – finale. Eppure, stavolta, siamo di fronte ad un brano ben scritto, totalmente godibile e piacevolissimo, dalle atmosfere Lynchiane. Credo che nelle intenzioni dei Baroness, Shine, il brano che segue Anodyne, dovesse essere la punta di diamante dell’album – piazzata in mezzo alla scaletta, e che presenta un sound molto più curato – e non in modo paraculo, senza echi dissonanti – rispetto a quanto espresso in precedenza: un’ottima linea vocale di Blazey, su un bellissimo tappeto sonoro di chitarre, basso, e ritmica 4/4 di batteria. Il sound è carnoso, pieno, ricco, avvolgente – e le cavalcate nei bridge sono ricche di pathòs ed accrescono la curiosità di ascoltare quale frase musicale seguirà. Magnolia, terzultimo brano di Stone, non è da meno: un delicato intro di chitarra, uccellini, torrenti in lontananza, e forte dubbing nella voce di Baizley – una ballad dolce e malinconica, fragile e sorprendentemente aggressiva nel refrain nonostante l’essenza catchy del brano – e lo stesso schema, ancora una volta, è ripreso in Under the Wheel, che però gioca maggiormente su accordi maggiori, e risulta più ariosa e fresca, e il rimestare nel torbido tipico di Baroness, stavolta, viene sostituito da un guardare alle stelle, complici i riff fortemente effettati che si avvicendano alla doppia cassa della batteria. In chiusura, l’acustica Bloom è il manifesto del nuovo corso dei Baroness, poetico ma di difficile interpretazione, e dal significato arduo da afferrare :

Home, where we go

To carry blood and stone

Home, where we go

Will you bury me back home?

Da Stone, non si può discutere la qualità tecnica dei Baroness, che li porta nell’Olimpo dell’alternative d’oltreoceano: si può, invece, questionare sul songwriting e sull’ispirazione – dov’è la passione? Dov’è l’idea? Dov’è il grip, dov’è l’arriccio? Tutto ciò manca in Stone, che risulta, purtroppo, noioso come un sasso, nonostante i begli episodi di Shine, Under the Wheel e Magnolia.

Giulia Della Pelle
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