Tre anni fa, esattamente il 20 Luglio 2017, ci lasciava Chester Bennington, storico frontman di quegli altrettanto storici Linkin Park che non solo sono stati in grado di fare la storia di un genere ormai praticamente spirato (il Nu-Metal), ma anche quello di una generazione intera
Credetemi, è davvero frequente trovare, tra gli amanti della musica rock e metal, figli degli anni 90 cresciuti con i lavori di Bennington, Shinoda and co. Ricordo ancora quei montage di Dragon Ball che, tra i primi contenuti virali di uno Youtube ben lontano dall’avere la diffusione degli ultimi anni, portavano come colonna sonora proprio alcuni dei pezzi storici della band californiana come Forgotten e In The End. Tra le voci principali di una generazione, delle sue necessità e dei suoi disagi, i Linkin Park sono tra le poche band che nel ventunesimo secolo sono state in grado di costruire una fanbase in grado di vantare milioni di followers attivi e, soprattutto, profondamente affezionati.
Per questo oggi, in ricordo di Chester Bennington, per la nostra rubrica Singolarità Musicali devieremo brevemente dai “soliti percorsi” di nicchia per analizzare in soldoni la genesi di una delle band più segnanti del ventunesimo secolo.
Non è facile riuscire ad inquadrare le chiavi del successo di una band. Le variabili sono molte, spesso imprevedibili e difficili da osservare
Tentando di abbozzare qualche ipotesi, sicuramente un grande facilitatore per la scalata di Chester Bennington and Co. è stato il periodo storico. Nati, proprio come i Muse, a cavallo tra quegli anni 90 territorio del grunge e dei 2000 tutti da scoprire, trovarono terreno fertile in una generazione adolescenziale che sicuramente più di oggi aveva attenzione, attrazione e fascino nei confronti di quella musica rock e metal che, lentamente, sta uscendo sempre di più dalla barra dell’attenzione delle new gen.
Difficile non cercare di comporre un seppur apparentemente forzato legame con la musica grunge. Non tanto nel contenitore musicale quanto, invece, nel contenuto. I figli degli anni 90 sono quelli che, più di tutti, si sono ritrovati ad ereditare un mondo difficile e, soprattutto, in rapida evoluzione. Un mondo in grado di mettere in serie difficoltà quei giovani “rookies della vita” che, in un vortice di emozioni contrastanti, non potevano fare a meno di cercare la loro rivoluzione “personale” nella comunicazione artistica. Così il Nu Metal dei Linkin Park, in qualche modo, diviene la bandiera di quell’onda generazionale che ha bisogno di comunicare le sue difficoltà, la voce di quel disagio che, in precedenza, proprio nel grunge aveva trovato il suo megafono.
Uniamo questi fattori ad un periodo in cui il mercato discografico godeva di un momento di “blooming” che ancora oggi possiamo sognarci e abbiamo facilmente individuato un paio di quei fattori che hanno contribuito a rendere i Linkin Park e Chester Bennington le icone che, tra amatori ed haters accaniti, sono destinati a rimanere vita natural durante.
Lo stesso Gucciardini un cinquecentinaio di anni fa nei suoi Ricordi definiva come sia da considerarsi per un uomo “fortuna” o “sfortuna” la nascita in uno specifico periodo storico più che in un altro, magari se dotato di relative caratteristiche in grado di esaltarne o distruggerne l’operato. Non solo però le comodità temporali sono alla base del successo dei Linkin Park.
Abbandoniamo discorsi di tempo, di trend e di pubblico, tralasciamo l’influenza discografica e gettiamoci a capofitto in quello che è e rimarrà sempre la principale fonte del successo “linkinparkiano”: lo stile musicale
Non me ne vogliano i puristi del virtuosismo (come corvi sempre ben attenti a lanciare fulminate di miope giudizio su quanti da loro non ritenuti all’altezza) ma Chester Bennington, Mike Shinoda, Joe Hahn e compagnia bella sono la dimostrazione lampante di quanto musica “semplice” possa essere efficace e, soprattutto, bella.
Che poi “la semplicità” è solo una questione di periodi storici e di contesto. Di fatto poche band negli early 2000 furono in grado di mostrarsi coraggiosamente innovative come i Linkin Park grazie alla loro spregiudicata fusione tra metal e pop, tra rap e screamo, tra distorsioni chitarristiche e sample elettronici. Una fusione vincente e senza ombra di dubbio “fresca” che non poteva essere più adeguata in un periodo delicato di passaggio come quello di un cambio secolo.
Una commistione musicale capace di guardare al passato ed al futuro contemporaneamente, suonando allo stesso tempo avveniristica in modo accattivante ma anche riconoscibile in modo rassicurante. Proprio dai Linkin Park e pochi altri nascerà quel trend che, in modo sempre più frequente nel tempo, riuscirà a distruggere (finalmente) quella barriera anteposta tra metal ed elettronica, in grado di far incontrare in modo disinvolto due mondi fino a quel momento reputati, dai più, non solo opposti ma anche nemici.
Dinamici e sempre improntati verso una costante evoluzione, in diciassette anni i Linkin Park sono sempre stati in grado di presentare in modo coraggioso e rischioso stili musicali differenti
Non sempre, di fatto, i fan e gli addetti ai lavori sono stati in grado di accettare quei cambiamenti stilistici spiazzanti che, spesso nati dal mastermind, compositore e polistrumentista Mike Shinoda, sembravano giungere dal nulla scompaginando totalmente le carte in tavolo.
Così, esplorando la discografia linkinparkiana, vi troviamo album come Hybrid Theory e Meteora, in grado di garantire con la loro crudezza metal i primi successi al complesso californiano, e lavori come A Thousand Suns ( opera di notevole pregio) o Living Things che, nella loro natura più schiettamente sperimentale e densa di strizzate d’occhio elettroniche, hanno spesso diviso la fanbase e creato polemica. Non dobbiamo dimenticarci, ovviamente, dell’equilibrato Minutes to Midnight (primo segno manifesto dell’evoluzione della band) o dell’evolutissimo The Haunting Party, attualmente senza ombra di dubbio, dal punto di vista musicale, il lavoro più raffinato della band.
Capitolo a parte sarebbe da aprire su One More Light, quell’ultimo album precedente alla morte di Chester Bennington che, accolto tra grandi polemiche e bordate di odio anche dai fan più accaniti (me compreso, e faccio mea culpa) non è stato in grado, almeno in una fase iniziale, di comunicare quello che era il suo vero e proprio messaggio ultimo. Un messaggio comunque presente anche in tutti i difetti della sua forma e che, forse, noi ascoltatori avremmo dovuto cercare di capire, al di la di difetti, incertezze e polemiche squistiamente tecnico/musicai. Un messaggio che, forse, avrebbe reso più semplice la previsione del dramma che da li a poco sarebbe avvenuto, quel suicidio di Chester Bennington su cui tante parole sono state spese e su cui non reputo opportuno dire altro.
Tra pregi, difetti, cambi di marcia improvvisi e scelte tanto coraggiose quanto discutibili, a tre anni dal “day 0” i Linkin Park riescono ancora ad essere, e di questo ne sono certo, la voce e la compagnia di molte anime
Ed è proprio qui, allora, che andiamo ad individuare quell’ultimo pregio in grado di costruire la fortuna della band californiana. Chi mi conosce sa quanto sia personalmente attaccato al concetto di “musica come comunicazione”. Proprio i Linkin Park nella loro storia sono stati in grado di assestarsi come band tra le più comunicative dei primi anni 2000, capaci di scolpire sensazioni, pensieri, ed esperienze tra note musicali, rendendole condivisibili e comprensibili all’ascoltatore, capace così di personificarsi ed interiorizzare l’ascolto musicale su un livello del tutto superiore dal semplice intrattenimento.
Anche in tutti i suoi momenti di alti e bassi, la musica dei Linkin Park ha sempre avuto quel sapore di sincerità, quel senso di genuinità capace di far affezionare l’ascoltatore e farlo, soprattutto, sentire partecipe di un macrocosmo fatto di eventi, emozioni e sensazioni condivise da migliaia, anzi, dozzine di migliaia di altre persone. Ed è proprio questa grande capacità comunicativa su di un piano più intimo che rendeva quella dei Linkin Park “Musica” con la M maiuscola, anche se priva di virtuosismi, anche nella sua natura più “grezza”, anche se alle volte segnata da scelte che non tutti erano in grado di capire.
Dinamici, sperimentatori, sempre improntati verso l’evoluzione e comunicatori
Nello storico del ventunesimo secolo i Linkin Park si assestano come una delle ultime rock band di grande respiro in grado di variare le proprie vesti, progredire verso territori musicali nuovi svestendosi di autoreferenzialità ma continuando, comunque, a comunicare con il suo pubblico. Art for art sake, insomma, anche se qualcuno di voi potrebbe non crederci visti i mastodontici numeri di share della band californiana.
Sarà che da musicista, con il tempo, ho imparato a riconoscere la musica fatta con il cuore. Sarà che anche io vorrei essere in grado di comunicare così come il sestetto californiano è stato in grado di fare nella sua carriera anche a costo di sacrificare raffinatezze di apparenza e virtuosismi vari.
Sono questi, in breve, i motivi del successo dei “Linkin Park”, una singolarità musicale in grado di accaparrarsi i grandi palchi del mondo musicale e che, dopo vent’anni, continua ancora a parlare alle anime di chi, nel tempo, ha scelto di ascoltare. E proprio ascoltando forse un giorno potrete riuscire a salvare una vita, ricordando al vostro prossimo che nonostante tutto esiste e che, qualunque cosa accada, avrà sempre qualcuno ad attenderlo dall’altra parte.
Who cares when someone’s time runs out?
If a moment is all we are
We’re quicker, quicker
Who cares if one more light goes out?
Well I do
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