Genoano doc, poeta scanzonato, cantante esistenzialista, vento anarchico: riassumere con queste parole Fabrizio De André è, allo stesso tempo, illustrativo e riduttivo. Illustrativo perché il cantautore è sì un genoano puro, un artista delle parole, un uomo in eterno conflitto con se stesso e con le autorità, ma è anche di più.
Per tutta la sua carriera De André ha deciso di porre le sue canzoni su un altro livello: non su eroi o presidenti, non su giganti della Storia: le sue parole vogliono descrivere la vita di tutti i giorni, il racconto del marciapiede di una città.
Le prostitute, le minoranze etniche, gli immigrati, i soldati sconfitti diventano i veri protagonisti dei brevi racconti di De André. Basandosi sulle costruzioni dei grandi parolieri delle Chanson, i francesi Jacques Brel e George Brassens, il cantante genovese decide di unire i suoi ricordi d’infanzia e le sue visioni.
A tal proposito vorrei soffermarmi di più su due canzoni di De André, due baluardi della storia della musica italiana, nonché eccezionali esempi di come il testo di una canzone possa essere, effettivamente, un eccellente esempio di letteratura.
“Ho visto Nina volare”, Anime Salve (1996)
Come primo esempio vorrei citare la penultima traccia dell’album Anime Salve, composto a quattro mani da Ivano Fossati e lo stesso De André. La canzone in questione è una miscellanea di emozioni, un inno alla gioventù e alla tanto sognata libertà; in realtà la traccia presenta anche un suo lato oscuro, un susseguirsi di turbamenti che sconvolgono la trama.
Per il cantante la visione principale è Nina, una ragazzina che si diverte giocando: oltre a racchiudere dentro di sé l’archetipo della gioventù, Nina è per De André uno dei suoi ricordi più importanti, una bambina (tale Nina Manfieri) con la quale aveva instaurato, da ragazzo, un profondo rapporto di amicizia.
“Ho visto Nina volare, tra le corde dell’altalena, Un giorno la prenderò come fa il vento alla schiena”
Il verso della canzone mostra quanto detto prima, la presenza di una parte positiva e una parte negativa. Lo Yin e lo Yang si presentano alla porta della mente di De André, che non può non portare conflitto all’interno di una sua opera. La seconda parte riassume il vero, puro e crudo istinto animalesco dell’uomo, essere vivente capace di emozioni ma emblema di un potere mefistofelico.
L’anarchia del protagonista vede spegnersi con la figura del padre, che si manifesta in un’epifania morale causata sempre dal ricordo. De André “sopprime” l’istinto animalesco per non dover fuggire dalla sua vita, per non scappare verso il mare, elemento di catarsi per chiunque veda l’orizzonte svanire in un infinito leopardiano.
“e se lo sa mio padre dovrò cambiar paese, se mio padre lo sa mi imbarcherò sul mare”
Ed è proprio con un’altra visione simil leopardiana che si chiude la canzone, un’ultima strofa che va a condensare l’incertezza del destino, la tradizione popolare e la brevità della vita, tutto scandito dal finale martellato dei tamburi che aumentano il pathos della vicenda.
“Quale sarà la mano che illumina le stelle, Mastica e sputa, Prima che venga neve”
“Disamistade”, Anime Salve (1996)
Ci troviamo nuovamente davanti ad una canzone dell’ultimo album di De André, troppo spesso sottovalutato dalla critica italiana. Come in molte altre canzoni del disco (mi viene in mente Prinçesa), il cantautore genovese decide di concedersi molti prestiti linguistici. In Crueza de mä De André omaggia la cultura e il dialetto genovese, in Anime Salve il ringraziamento è nei confronti di molti più linguaggi.
Nel caso di Disamistade l’artista vola in Sardegna, negli spogli territori della Barbagia. Nonostante questo luogo riporti in mente, sia a De André che alla moglie Dori Ghezzi, il sequestro avvenuto nel 1979 da parte dell’Anonima Sarda, il cantante è rimasto folgorato dalle caratteristiche proprie della Sardegna e dei suoi abitanti.
La parola “Disamistade” in dialetto sardo significa “faida”: e la canzone tratta proprio di questo, una lotta continua tra gli abitanti di un paese nel cuore della Sardegna. Qui De André riesce a racchiudere, all’interno di una canzone di cinque minuti, tutta la solitudine di un popolo lontano ma vicino e l’indifferenza dell’essere umano.
“Che ci fanno queste anime davanti alla Chiesa, Questa gente divisa, questa storia sospesa”
Volendo dare una prima impronta del luogo, De André ci trascina davanti ad una chiesa, dove si trovano “persone divise con storie sospese”. Il paradosso regna sovrano in questa scena, poiché dovrebbe essere la Chiesa il vero simbolo d’unione universale; la verità però non è questa, e la gente del posto continua a vivere in un precario equilibrio.
La lotta interna raccontata nella vicenda in realtà non arriva mai ad un epilogo tragico: tutti sono fermi, inermi, nessuno intende fare il primo passo. La storia non vuole risolvere le questioni come Goya fece con Duello Rusticano, vuole fare l’esatto opposto:
“A misura di braccio, A distanza di offesa, Che alla pace si pensa, Che la pace si sfiora”
È incredibile come un altro dipinto di Goya aiuti a dare un’immagine alle parole di De André: in uno dei versi successivi il cantante utilizza un cane come emblema della solitudine. Come il Cane interrato nella rena e la copertina dell’album Mio Fratello è figlio unico di Rino Gaetano, anche De André vuole spingere a unire la solitudine con la figura del cane, visione neorealista alla Umberto D.
“Il lamento di un cane abbattuto da un’ombra di passo”
La canzone termina con la stessa strofa dell’incipit, effetto quasi voluto da De André a rimarcare l’impossibilità di cambiamento. In un eterno ritorno nietzschiano, l’artista decide di rendere immortale questo luogo quasi dimenticato da Dio con l’immagine di un cerchio che si ripete su se stesso all’infinito, destinandolo al fluttuare in un eterno spazio.
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