Perché Ludwig van Beethoven viene considerato da molti come uno dei migliori compositori della storia della musica? Perché le sue opere sono esaltate come emblema del Romanticismo? Queste due domande procedono, di pari passo, verso la stessa destinazione.
Definire Beethoven è estremamente complicato per noi lettori e ascoltatori moderni: la sola idea di andare ad ascoltare qualche suo pezzo diventa una vera e propria sfida per tutti gli appassionati del genere e non.
Autentici capolavori come Sonata per pianoforte n.17 (allegretto) e Sonata per pianoforte n.8 (patetica) sono, tuttora, colonne portanti della musica mondiale. Come in Charlie Parker, anche in Beethoven la musica diventa il veicolo di trasmissione della sofferenza, dell’angoscia dell’essere umano.
Più che la Sonata n.17, è la Patetica a rappresentare, al cento per cento, la forte bipolarità della musica (e quindi dell’uomo) Beethoven. Dopo un inizio classico, introduttivo e banalmente virtuoso, l’opera del musicista tedesco cambia improvvisamente.
È un litigio, un battibecco di circa venti minuti che definisce, una volta per tutte, l’anima profondamente romantica di Beethoven; è come vedere due tangueros che ballano. Il binomio uomo/donna si fonde nel ballo e si unisce all’interno della musica.
La sottile violenza dell’opera viene mascherata da note interrotte e riprese in continuazione, un saliscendi di emozioni che scardinano il concetto di musica da quel neoclassicismo perfetto e paradisiaco.
Ascoltare Beethoven è completamente diverso dall’ascoltare Bach: per quanto le opere dei due compositori tedeschi siano perfette, sono perfette in due modi completamente diversi. Bach compone per rendere simmetrica la musica (basti pensare alle Variazioni Goldberg), Beethoven scrive perché vuole rappresentare attraverso le note l’imperfezione dell’uomo.
Un mezzo che aiuta a farci entrare, ancora di più, nel mondo della musica classica, è quello della letteratura. Due grandi romanzi, Arancia Meccanica di Anthony Burgess (1962) e Il Silenzio degli Innocenti di Thomas Harris (1988) hanno riportato, all’interno del mainstream, i nomi dei due compositori tedeschi.
Nel libro di Burgess (e soprattutto nel film di Kubrick), Beethoven è la linfa vitale del protagonista. Insieme alla droga, la musica del Ludovico Van ispira l’uomo a compiere le gesta violente che contornano la storia (molto più violente nel romanzo che nel film. NdR).
Alexander de Large è la rappresentazione della violenza incontrollata, ma è anche una delle più grandi riproduzioni umane della musica di Beethoven: una stupenda, elegante e feroce belva pronta ad esplodere. Tolti i vari e azzeccatissimi intermezzi rossiniani, all’interno del film la scena più grottesca, colta e disturbante è sicuramente questa:
La Sinfonia n.9 di Beethoven diventa la protagonista dell’atto: una miscellanea di immagini deliranti seguono l’andamento della musica, accompagnando lo spettatore in un ossimoro vivente, il perfetto che diventa imperfetto. Come per Hannibal Lecter ne Il Silenzio degli Innocenti, anche nell’opera di Burgess non possiamo non rimanere affascinati dalle colte menti di questi protagonisti negativi.
All’interno del romanzo di Thomas Harris e nel film di Jonathan Demme, la protagonista viene quasi privata della scena da Hannibal Lecter, colto e fine psicologo avvolto dall’aura maligna dell’omicidio e del cannibalismo.
La scena dell’evasione dal carcere è un paradiso di natura drammaturgica e musicale. Per la prima bisogna innanzitutto ringraziare lo scrittore (poi gli attori del film), per la seconda la scena è completamente ridimensionata dall’ aria della Variazione Goldberg di Bach.
Come in Arancia Meccanica, anche qua la musica classica si distoglie dalla sua funzione di contorno, andando a diventare la vera, grande, protagonista della scena. Provate ad immaginare momenti del genere senza colonna sonora: vedrete soltanto atti violenti ed efferati, senza pathos e carente di ogni minimo dettaglio psicologico.
Le opere di Beethoven, riconosciute in tutto il mondo, sono solamente un antenato della ben più moderna concezione di musica-che-racconta, elemento chiave per ogni performer della storia. La frase di Big Mama Thornton rivolta a Janis Joplin, racchiude tutta l’essenza della circolarità della musica, rappresentazione artistica della nostra vita e degli artisti che l’hanno creata: “Quella ragazza prova le stesse cose che sento io”.