Radio-Activity fu il quinto e album della consacrazione elettronica del gruppo dei Kraftwerk, nel 1975, da cui fu estratta l’hit Radioactivity. Un lavoro moderno e attuale, cui dobbiamo moltissimo della musica odierna.
La generazione precedente alla nostra ha imparato, per un lungo periodo, a temere un suono: il ticchettio metallico di un contatore Geiger. L’orologio dell’apocalisse, la cui lancetta si avvicina sempre più pericolosamente alla mezzanotte – un concetto che da noi, in provincia italiana profonda, era totalmente sconosciuto.
Ma a quattro musicisti d’elevatissimo calibro e cultura quali la formazione classica dei Kraftwerk quel ticchettio metallico, sordo e quasi nasale, fu d’ispirazione per un lavoro assolutamente seminale, al pari di un Requiem K-626 di Wolfgang Amadeus Mozart: Radio-Activity, del 1975.
I Kraftwerk, all’epoca, erano composti da Ralph Hutter, Florian Schneider (recentemente scomparso), Wolfgang Flur, e Karl Bartos. La scelta di utilizzare esclusivamente strumenti elettronici fu rivoluzionaria, in quanto, fino a quel momento, la musica dei Kraftwerk era fortemente influenzata dalla scena prog inglese, sebbene rielaborata in krautrock – con tanto di flauti e violini. Altrettanto rivoluzionaria, e ricca di un oscuro sarcasmo, è stata la scelta del tema da esplorare: il tremendo pericolo portato da qualcosa di inconsistente, di invisibile, ma capace di annichilire la civiltà umana.
La remastered del 2009, indubbiamente, ha apportato nuovo lustro a suoni che, costruiti con estrema cura e attenzione con strumenti Moog e con un antenato dei moderni synth modulabili, l’Orchestron della Vako, che permetteva la modulazione di note pre-registrate di Violino, Hammond, coro (utilizzato estensivamente nella title track), corno francese ed altri ancora. La stupefacente bellezza, la lucidità e risoluzione dei suoni raggiunti in Radio-Activity non ebbe paragoni nella musica all’epoca contemporanea, e alla scena dell’elettronica tedesca e del pop sperimentale tutto della Germania Occidentale – il krautrock – dobbiamo sostanzialmente tutto dell’elettronica moderna nella declinazione più elevata del termine – in musicisti come I Chemical Brothers, gli M83, i Daft Punk, e infiniti altri meno noti. Negli anni ’70, nella Germania dell’Ovest – quella “buona” – i Kraftwerk si ritrovano a creare una scena fino a quel momento sconosciuta, solcando lidi fatti di armonie particolari e di complessi strumenti analogici, giocando con resistenze e conduttanze e, all’atto pratico, con le leggi di Maxwell.
Il viaggio, algido e creativo, di Radio-Activity – un snodarsi e fluire lasciando una traccia indelebile del proprio passaggio – inizia da Geiger Counter, un sampling atòno di un contatore Geiger. Un metronomo strano per questi tempi strani.
Lo stesso, straniante, metronomo, lo ritroviamo nella hit Radioactivity, che, ascoltata quarantacinque anni dopo la sua uscita, risulta di una strabiliante attualità. Sampling di cori femminili a scandire un ossessivo 8/8 e di frasi musicali semplici e minimaliste, fatte di silenzi e rotondità di impulsi elettrici. Di codici morse, che, per l’appunto, scandiscono la parola R A D I O A C T I V I T Y. Alla genìa delle signore Curie, le lady della radioattività, è dedicato l’intero brano che, al contrario di ciò che un ascolto superficiale potrebbe suggerire, esprime una radicatissima contrarietà all’utilizzo militare dell’energia nucleare.
Al di là della title track che, a mio personalissimo giudizio, è una delle più belle e seminali opere pop che la musica abbia mai sperimentato, il resto di Radio-Activity si muove su binari fatti di elettroni scintillanti e di altrettanto pregio: RadioLand è un esperimento di una ninnananna – basata sulla ben nota Twinkle, Twinkle, Little Star – , rallentata e stiracchiata, da una robot lucidissimo al suo bimbo gracchiante che ancora non ha imparato a parlare e che si addormenta in un caotico esplodere di pulsazioni elettriche in neuroni artificiali. L’intermezzo in 8 bit Intermission è precursore dei più felici momenti dell’elettronica fai da te di inizio terzo millennio, mentre, sullo stesso tappeto a 8 bit, si sussurra News, un divertissement sinestetico e felicemente caotico di una falsa news telegiornalistica della Germania dell’Ovest riguardo i grandi successi della radioattività. Antenna, introdotta da The Voice of Energy – e sentiamo la coppia Meyer-Eppler e il suo allievo (ben più celebre) Karlheinz Stockhausen, e le sue atonalità, i suoi silenzi, le sue pause, il loro condiviso genio – è un brano gioioso ed upbeat e cui i maggiori producer moderni si rifanno – per l’espansione in frequenza ed intensità dei suoi synth, per l’eccezionalità del mixaggio, per le infinite possibile che il sistema musicale inventato dai Kraftwerk schiuse, all’epoca. Un nuovo mondo sonoro totalmente nuovo, sconosciuto fino a quel momento, inesistente, creato dal nulla di leggi matematiche e fisiche che venivano inseguite da più di tre secoli. Una lezione di fonetica che permane tutt’oggi.
Una lezione che, invece, mi sento di impartire al lettore, è quella riguardo le pulsar. Bene. Tutti sappiamo cos’è una stella: un ammasso incommensurabilmente grande di plasma ionizzato per via della sua stessa massa ed in grado di scatenare reazioni nucleari per via, per l’appunto, della sua massa. Beh, non tutte le stelle sono così. Ve ne sono alcune, piuttosto rare, ma neanche così tanto – data l’enorme infinità dell’universo, al di là della sua forma o della sua densità, tuttora materia di dibattito – che, pur emettendo luce, non ha più come fonte d’energia l’idrogeno, essendo composta quasi esclusivamente di neutroni. In una forma stabile. Un oggetto incredibilmente piccolo, parliamo di circa il diametro del nostro pianeta, che contiene la massa di una stella inizialmente in grado di occupare il nostro sistema solare fino all’orbita di Marte. Un momento d’inerzia conservato, però: che causa una rotazione enormemente rapida. E chiunque abbia studiato un po’ di fisica, ricorda che un oggetto carico, qualora ruotante a determinata velocità, è in grado di emettere un campo magnetico. Nel caso delle pulsar, incredibilmente potente. Onde radio perfettamente regolari vengono emesse dalle pulsar, che raggiungono il nostro pianeta, e sono perfettamente discernibili dalla radiazione cosmica di fondo e dall’incredibile caos che noi umani sappiamo produrre.
I Kraftwerk decisero di inserire in Radio-Activity la frequenza di rotazione di una pulsar, in un brano intitolato Radio Stars. Che, simbolicamente, da elemento ontologicamente naturale quale una pulsar è, evolve in Uranium, un rarissimo metallo che si forma proprio nelle fasi finali della vita di una stella – una fase finale che, il più delle volte, si dischiude in una pulsar. Un teutonico ed inquietante sussurro di cori campionati e distorti prelude alla ben più ariosa e positivista – nell’accezione capitalista del termine – Transistor, che è sostanzialmente la riproduzione elettronica di un motivetto barocco fatto di clavicembalo e archi squittenti. Ben felice, devo dire, di essere, nel non aver ritrovato rimandi alle numbers radio, in tale brano.
La solenne Ohm Sweet Ohm, vero e proprio inno a Ohm, il grande scienziato che formulò le leggi della resistenza e della differenza di potenziale, fa abbondante uso di vocoder e di una voce della Votrax, una longeva azienda (1971/1996) americana di produzione di voci sintetiche, evolvendo poi in un classico esperimento ambient, una melodia ben orecchiabile suonata da una voce principale mentre si aggiungono beat, drum machine antediluviana, in un risultato finale cui le colonne sonore di Final Fantasy I, II, e III per Game Boy e Snes fin troppo devono.
Quarantacinque anni dopo, Radio-Activity del quartetto delle meraviglie della formazione originale dei Kraftwerk è ancora un lavoro avanguardistico, con un occhio proiettato al futuro e alle meraviglie che la tecnologia può produrre.
Tanta è l’insistente concettuale sulla comunicazione, che ritroviamo solo in lavori come il contemporaneo Death Stranding, ad onde corte e lunghe, sull’unificazione, sulla conoscenza, sulla comunione; sull’utilizzo benefico della tecnologia. Contrapposto al tremendo incipit, la splendida quanto terribile title track, che ne è antitesi, che è sonificazione di quanto l’uomo possa utilizzare il proprio intelletto per distruggere, annichilire, uccidere, bruciare, desertificare. Di come l’ambizione possa distruggere, e, allo stesso tempo, creare.
I Kraftwerk, notoriamente poco chiacchieroni con la stampa, non diedero mai granchè spiegazioni del perché della scelta di tale tema ultra-tecnologico: io confido che, anche se non sono nessuno per farlo, ebbero la tracotanza – ben riposta – di credersi e sapersi gli Einstein della musica. Quali, effettivamente, al di là di ogni ragionevole dubbio, furono.
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ero un pupetto di 12anni quando acquistai radio activity 1974,e il mondo non capii, ero un diverso che ascoltava musica strana quella dei kraftwerk, vero è che la radio in copertina evocava… bhe mai srato in disaccordo anzi ma politica a parte finalmente dopo decenni sono stati rispettati, il mondo la massa si accorse che furono creatori. se il genere umano durerà loro saranno ancora ascoltati ad onta di mode e costumi. diego