Mank parla di noi

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Mank è un film straordinario nel riuscire da un lato a riportare in vita la Hollywood degli anni ’30 in tutta la sua decadente bellezza, e dall’altro di utilizzarla come un espediente per descrivere il nostro presente.

Una cosa è sicura: a Fincher piace smontare i miti. Dopo il successo di The Social Network, con il quale fornisce un ritratto tridimensionale e umano del genio sviluppatore di Facebook, in questo Mank, avvalendosi di una ottima sceneggiatura scritta da suo padre, Jack Fincher, si rivolge niente meno che a Orson Welles, propugnando la tesi, già avanzata negli anni ’70 dalla critica cinematografica Pauline Kael, secondo la quale la sceneggiatura di Quarto Potere venne scritta interamente da Herman J. Mankiewicz, senza alcun contributo da parte del regista.

Ora, l’articolo della Kael negli anni è stato duramente contestato da storici e critici cinematografici, ed è quindi da prendere cum grano salis, ma questo non toglie nulla alla grandezza dell’opera da esso derivata, anche considerando che la genesi di Quarto Potere è utilizzata come pretesto per raccontare dinamiche e cambiamenti mai così attuali.

Herman Mankiewicz, magistralmente interpretato da Gary Oldman, è un personaggio estremamente complesso, un osservatore lucido (anche se perennemente ubriaco) della realtà che lo circonda, che ne vede chiaramente il corso, ne prevede ed è in parte causa del suo inevitabile destino, e nella frustrazione di non poterlo modificare decide di vendicarsi con l’unica arma a sua disposizione: la parola.

E’ infatti una vendetta quella che compie ai danni del magnate dell’editoria William Randolph Hearst (interpretato, in una scelta di casting impeccabile, da Charles Dance: chi meglio di Tywin Lannister per rappresentare un uomo potente e straordinariamente ricco?) e di tutta la sua “corte”. Egli è infatti colpevole di aver sovvenzionato una campagna diffamatoria ai danni del socialista Upton Sinclair, e di aver strumentalizzato il cinema, finanziando la realizzazione di alcune false interviste, a questo scopo.

Il senso di colpa di Mank per essere stato in parte causa di queste calunnie, e la sua impotenza davanti ad esse, sono perfettamente raccontate dal regista in una sola sequenza: intuendo che l’unico modo per far cambiare idea a Hearst sia attraverso la sua compagna, l’attrice Marion Davies (una stupenda Amanda Seyfried), Mank insegue il “corteo” che la sta accompagnando fuori dagli studios della Metro Goldwyn Mayer alla fine delle riprese di un film, e cerca di convincerla a tornare indietro e a parlare con il produttore Louis B. Mayer (detestato da Mank, sarà fonte d’ispirazione per Bernstein, il secondo in comando e galoppino di Kane in Quarto Potere); L’attrice tuttavia rifiuta, e Mank si allontana lanciando al vento una risata sarcastica, mentre la lunga fila di macchine e costruzioni scenografiche lascia gli studios, che da luogo d’arte sono diventate teatro di marchette.

Ambientare il film nella Hollywood degli anni ’30 dà inoltre al regista la possibilità di parlare di un altro tema di grande attualità, mettendo in evidenza in “corsi e ricorsi storici” che caratterizzano ogni realtà: un periodo segnato da un lato dalla Grande Depressione del ’29 e, di conseguenza, dalla forte crisi del settore cinematografico e dell’arte in generale,  e dall’altro caratterizzato da grandi innovazione da venire, come l’introduzione massiva del sonoro, si presta perfettamente ad una similitudine con il nostro presente, caratterizzato da una crisi che sta colpendo tutte le categorie, ma che con una forza drammatica ha travolto il mondo dello spettacolo, e in cui tuttavia le nuove tecnologie ci offrono straordinarie possibilità, impensabili fino a pochi anni fa; una sequenza, in particolare, elicita una riflessione in questo senso: David O. Selznick, produttore e capo della Paramount, chiede a Mank e ad altri sceneggiatori lì presenti idee per riportare la gente al cinema; il protagonista risponde ironicamente che bisognerebbe portare il cinema alla gente, proiettando film in strada, che è in un certo senso quello che oggi permettono le piattaforme di streaming (una delle quali produce e distribuisce lo stesso Mank, per dire).

Dal punto di vista tecnico, come se ci fosse bisogno di dirlo, Fincher non sbaglia un colpo: la regia è in tutto al servizio alla storia e, nel tentativo di riprodurre lo stile dei film prodotti negli anni in cui si ambienta la trama, si caratterizza per una macchina molto statica e pochissimi virtuosismi.

Sono inoltre presenti alcune chicche: i flashback sono preceduti da didascalie, scritte a macchina, che specificano luogo e tempo del racconto, come in una vera e propria sceneggiatura. Infine, il regista inserisce false “bruciature di sigaretta” alla fine dei rulli (inesistenti, il film è girato in digitale): questo rappresenta, oltre ad un omaggio ai film dell’epoca, una autocitazione di Fight Club (tutti ricordiamo cosa inseriva Tyler Durden alla fine dei rulli, vero?).

Film complesso come l’opera di cui racconta la nascita, con una narrazione che si avvita su stessa come un girella alla cannella, in cui ogni flashback è più corto del precedente, fino al meraviglioso confronto tra Mank e Hearst nel passato, montato in alternanza a quello tra Mank e Welles nel presente, Mank riesce a intrattenere, incuriosire e turbare, guadagnandosi a mani basse un posto tra i migliori film di Fincher e tra i migliori di questo 2020.

Ottavio Napolitano
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