In quasi settant’anni di televisione pubblica, l’emancipazione femminile fatica ancora a trovare un posto. La spesa sexy di Detto Fatto è l’ennesima trovata poco dignitosa nei confronti della donna, vista – troppo spesso – solo come un pezzo di carne utile a sfamare i piaceri maschili.
Premetto che la chiusura di un programma non mi fa piacere. Non ho gioito e non gioisco per la sospensione di Detto Fatto che, nonostante quello che è successo, è una macchina in cui lavorano centinaia di persone, molti dei quali sono lavoratori a progetto che, da un giorno all’altro, si sono ritrovati senza un’occupazione professionale.
Detto ciò, far passare il messaggio in cui “sei donna e devi esibirti tra gli scaffali di un supermercato perché l’uomo ti possa comprare” è quanto di più basso e meschino ci possa essere. Soprattutto se si parla di spettacolo, soprattutto se si parla di televisione pubblica. E allora, seppur dispiaciuta per tutti quei professionisti che hanno visto terminare il proprio lavoro, dico che ogni condotta ha le sue conseguenze.
Conseguenze che dovrebbero essere rivolte anche ad altri programmi presenti nella televisione pubblica, e non solo, perché fare figli e figliastri non fa bene né allo spettacolo e né all’emancipazione femminile.
Negli anni la Rai non è nuova ad approssimazioni e mercificazioni del corpo della donna. Sembra che la televisione pubblica si sia fermata agli anni Sessanta, che non abbia mai attraversato la stagione dei diritti e dell’emancipazione femminile, che si faccia promotrice di un Paese che ha seri problemi di misoginia e maschilismo.
Il “maschiocentrismo” è il fil rouge che lega la televisione pubblica degli anni ’50 e’60 a quella di oggi.
Erano gli anni in cui l’intrattenimento veniva affidato a figure maschili, come se non ci fossero donne in grado di condurre programmi televisivi. Pensiamo ai varietà della Rai, luoghi in cui il corpo femminile era sistematicamente esibito, privato spesso di qualunque identità e sbandierato ad uno sguardo giudicante del pubblico. Senza parlare della pubblicità come Carosello, quando la donna veniva dipinta come pettegola, invidiosa e pedante. Attenta solo alle dicerie e alla casa, rappresentata come un essere umano senza interessi e né cultura, spesso isterica e fragile, legata al suo ruolo di madre, moglie e casalinga.
E oggi? E oggi è uguale. Per quanto la televisione si sforzi di mostrare donne in carriera, determinate nel raggiungimento di obiettivi professionali, non fa altro che associarci a prodotti utili per la casa e a proporci come oggetti del desiderio.
Ci avete mai fatto caso? Quando si tratta di prodotti per casalinghi, il novanta per cento dei casi l’interlocutore è donna. Adesso si sono imparati a renderle impegnate in altro: figli, lavoro, palestra. Ma sempre con il pallino della casa da pulire e di un piatto da cucinare. Perché è sempre lei che è l’addetta alla casa e ai figli.
Senza parlare di quando veniamo descritte come instabili mentalmente prima di prendere antidolorifici; oppure quando siamo sempre pronte a fare le infermiere all’uomo perché lui non è in grado di prendersi una tachipirina da solo; ma anche vere e propre femme fatal per pubblicizzare uno yogurt. Una “normalità” dipinta in maniera mortificante.
Ma torniamo agli anni Sessanta. Perché qualcosa stava cambiando seriamente. A dare una svolta all’immagine femminile nella televisione pubblica furono poche elette. Parliamo di personalità come Franca Valeri, iconica nel suo ruolo di mattatrice; Mina, alla quale le fu affidato Studio Uno, nonostante fosse stata vittima anche lei di una società patriarcale che non le perdonò un figlio con un uomo sposato; e la prima “valletta parlante” Paola Penni, che fece scoprire che in televisione la valletta aveva una voce e poteva fare altro, al di là dell’essere un soprammobile dell’uomo.
Il vento sembrava cambiare per davvero, tanto da coinvolgere un intero decennio: gli anni Settanta, considerati gli anni del cambiamento radicale, di rottura con un modello culturale prevalentemente puritano, contribuirono in qualche modo all’emancipazione della donna. Penso a Raffaella Carrà, per esempio, capace di tenere le redini di programmi interi senza l’aiuto di un uomo.
Ma ad un certo punto c’è stata una brusca frenata. Un ritorno al passato. Ma questa volta il messaggio che passava era più subdolo, più umiliante e indignitoso. Gli anni Ottanta hanno reso inutile l’emancipazione femminile nella televisione pubblica.
L’arrivo della prima rete privata per mano di Berlusconi ha cambiato le redini del gioco. Era tornata la figura della “velina”, ma questa volta non quella pudica e timida, ma sfacciata. Tacco dodici, scollatura a precipizio, gonna inguinale e possibilmente con una maglietta che scopra la pancia. Ovviamente sempre zitta, ma con il sorriso ben stampato in faccia e sempre attenta a non aprire bocca, che se per carità avesse detto qualcosa di sensato sarebbe stato uno shock per i maschioni Mediaset.
Che poi non è il fatto di apparire seminude. La donna deve vestirsi come vuole – sia chiaro – e lo deve fare in televisione come in qualsiasi altro luogo, deve sentirsi a proprio agio sempre. Ma il fatto ripugnante è che sia stata relegata solo in una posizione, come se non sapesse fare altro che sculettare.
Ovviamente la televisione pubblica si è dovuta adeguare a questo scenario mercificante, dove la donna è tornata ad essere un mero arredo scenico, ovviamente di bell’aspetto che non sia mai prendere una ragazza con il nasone, i fianchi larghi e un’altezza medio-bassa che non piace al maschio alfa.
Un decennio, quello degli anni ’80, che ha cambiato per sempre la storia della televisione, che ha avuto un impatto sulle donne e sulla concezione di femminismo in generale totalmente negativo.
Da quel momento c’è stato un “tutti contro tutti”, o meglio, un “tutte contro tutte”. Dove le donne sono sempre – messe – in competizione l’una con l’altra e non occupano nessun posto di rilievo. Ci hanno insegnato a non fare squadra, ad essere gelose, a farci la guerra e a boicottarci. Ci hanno insegnato ad etichettare e categorizzare le donne come se fossimo gruppi alimentari. Eppure l’allenaza e la stima tra donne è quanto di più bello ci possa essere.
L’immagine stereotipata della donna sexy provocante, con i tacchi a spillo e un corpo compiacente è figlia di una cultura maschilista che pone l’accento sulla bellezza e l’aspirazione alla perfezione fisica, che non valuta le competenze di una donna, ma solo il suo aspetto. Ed è questo che ha spinto la Rai a realizzare un tutorial su “come muoversi mentre si fa la spesa” o creare uno spazio per elencare “i motivi per scegliere una fidanzata dell’est”.
Negli ultimi trent’anni la televisione ha marchiato la donna. Il sessismo che vediamo nei programmi tv è lo stesso vissuto nella realtà. Lo show-business è spietato con le donne, non le perdona niente: né qualche chilo di troppo – Vanessa Incontrada ne sa qualcosa – e né qualche ritocchino stravagante.
Così, delle tre “gambe” del progetto originario della televisione pubblica – “informare, educare, divertire” – è rimasta in piedi solo l’ultima. Mentre l’informazione scricchiola e l’educazione è totalmente assente, divertire e intrattenere sfruttando il corpo della donna è la scelta più semplice e scontata da attuare.
Eppure esiste un’altra realtà, fatta di donne che studiano, lavorano e fanno politica, che non hanno la minima intenzione di essere relegate a ruoli secondari e decorativi o utilizzate come richiamo sessuale di facile presa.
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