“Siamo ancora una band? Siamo ancora amici? È come se non fossimo neanche qui”, con queste laconiche parole esistenziali, quasi da epitaffio in pieno stile “Antologia di Spoon River”, ci immergiamo nell’opera congiunta di Danilo Deninotti (disegni) e Luca Lenci (testi) dal titolo “Wish You Were Here: Syd Barrett e i Pink Floyd” uscito ad inizio novembre del 2015.
Volendo aggiungere questioni esistenziali su altre, la domanda a questo punto è “in che cosa si differenzia questo fumetto da tutto il resto del materiale targato Pink Floyd?”. In effetti possiamo dire che è stato scritto praticamente di tutto sulla storica band inglese, dai ricordi da batterista di Nick Mason fino alle più profonde turbe psichiche di Syd Barrett per non parlare poi dell’effettistica di David Gilmour, l’uscita ed il rientro di Richard Wright e la “dittatura” di Roger Waters.
Insomma, c’è davvero un fiume infinito di materiale, per tutto il resto c’è stata la mostra Their Mortal Remains, ma come in una camminata nel bosco, a volte il sentiero meno battuto e messo un po’ a lato può rivelarsi una buona scelta.
Come avrete già letto qui, il fumetto è da sempre stato una parte di chi vi scrive queste righe ed è un mezzo che ben si presta alla narrazione sia di eventi realmente accaduti che sperduti su qualche pianeta lontano. Ma cerchiamo di ricalibrarci un po’ e collochiamo la nostra storia in un determinato tempo e spazio prima di partire per “il lato oscuro della luna”.
Ci troviamo dunque in Inghilterra nei gloriosi anni Sessanta dove le note di Beatles e Rolling Stones spazzano via gli orrori dell’ultimo conflitto mondiale ed il cupo periodo della Thatcher è ancora relativamente lontano. Anni di libertà, sperimentazione, politica, speranza e voglia di fare qualcosa di nuovo mentre, allo stesso tempo, ci si dedica agli ideali di pace e controcultura. Naturalmente non manca la consueta dose meditazione trascendentale condita dal giusto mix di stupefacenti.
In tutto ciò questa storia, in Wish you Were Here, come molte altre, ha inizio in un pub tra fumo di sigarette e qualche pinta di birra scura. In uno scenario di rosa e nero, una scelta decisamente azzeccata visto il futuro nome della band, troviamo dunque ad un tavolino i giovanissimi Roger Waters e Syd Barrett. Sarà infatti il primo a proporre a Barrett di entrare nella band dei Leonard’s Lodgers (uno dei vari nomi del mitico gruppo inglese che è stato battezzato anche Spectrum Five, Screaming Abdabs e Tea Set).
Piccolo salto in avanti nel tempo ed ecco che il gruppo ha raggiunto il suo successo con i primi singoli ed anche l’ispiratissimo, oltre che psichedelico, primo album intitolato “The Piper at the Gates of Dawn”. Il successo è tale che il quartetto viene invitato ad esibirsi, ovviamente in playback come già si faceva all’epoca, in “Apples and Oranges”, ma naturalmente è tutto troppo bello per durare.
Syd è distratto, assente, lontano mille miglia da quello che accade in studio tanto che non fa neanche finta di suonare o di cantare. Ci penserà dunque Waters a sistemare la situazione, oltre che a qualche ripresa fatta agli altri componenti come si può vedere qui sotto, ma ormai la frittata è fatta. E non stiamo parlando certo della futura “Alan’s Psychedelic Breakfast”, battute a parte andiamo avanti.
Un’altra giornata attende dunque il pittore e coinquilino Duggie Fields, ma peccato che le sue pennellate verranno interrotte da un gruppo di amici di Syd desiderosi di far provare al musicista qualcosa per andare ancora più fuori di testa.
Per farla molto breve, tra Asperger e compagnia cantante, Barrett ci rimane talmente sotto che le canzoni proposte alla band ne risentiranno. Una su tutte è “Have You Got It, Yet?” che continuava a cambiare di tonalità per somma disperazione di Waters, in primis, seguito a ruota da Mason e Wright.
Come ben noto a nulla varrà l’intervento di David Gilmour nella band, Barrett avrebbe dovuto infatti essere una sorta di Brian Wilson dei Beach Boys occupandosi solo di dischi, musica e testi lasciando i tour agli altri Pink Floyd, nonostante il grande chitarrista abbia aiutato lo sfortunato “diamante pazzo” con la registrazione dei suoi album solisti (“The Madcap Laughs” e “Barrett” entrambi del 1970).
La pressione non contribuirà certo a renderlo quel diamante che, purtroppo, tutti speravano che fosse e Barrett, semplicemente, implode su sé stesso cedendo a droghe, pressioni delle case discografiche, turbe psichiche e così via.
La chiusura della vicenda narrata in questo fumetto, come noto agli appassionati del quartetto inglese, avviene dunque nel 1975 durante le registrazioni di “Wish You Were Here” quando Barrett, oramai completamente irriconoscibile, fa un salto negli studi lasciando tutti sotto shock.
Ma alla fine cosa aggiungono queste pagine a quello che già si sa? Forse nulla, o almeno nulla di nuovo per i fan accaniti, ma almeno si riesce a tratteggiare egregiamente la scena, la disperazione e la creatività di un genio come Barrett. Poi, certo, ci sono alcune piccole mancanze, abbreviazioni o imprecisioni, come ad esempio la mancanza di Bob Klose che ritroveremo in “On an Island” e “Rattle That Lock” di Gilmour, ma il citazionismo c’è tutto.
Sia a partire dall’utilizzo del rosa assieme al bianco ed al nero che dalle note e dalle copertine che torreggiano su un Barrett sempre più confuso e disorientato, tutto è targato Pink Floyd. Da un prisma newtoniano che mai più si scolleranno di dosso al fumo della centrale elettrica di Battersea, immortalata su “Animals” ed ora di proprietà della Apple, ogni singola pagina di questa opera è da leggere con avidità e riguardare con attenzione.
Costa pure poco, soprattutto la versione Kindle, perciò che avete da perdere? Consigliato agli amanti del fumetto e della musica, ma fortemente sconsigliato ai soliti saccenti convinti di avere la verità in mano e/o ai fissati che intasano i social (anche se a volte le categorie si fondono).
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