I Got Heaven è il nuovo album dei Mannequin Pussy, uscito il 1 marzo per Epitaph e anticipato dal singolo omonimo.
Qualche settimana fa mi è capitato fra le mani un disco strano, stranissimo. Sebbene sia già abituata ad ascoltare musica fuori dal comune, I Got Heaven dei Mannequin Pussy – e già nome della band… – ha rappresentato qualcosa di unico e che è immediatamente finito nella mia playlist.
Ma chi sono, questi Mannequin Pussy? Sono americani, innanzitutto. Di Philadelphia. E il loro sound ondeggia fra il punk e l’indie, fra il romantico e il furibondo; fra le esplosioni di diesel e le roselline di maggio.
I Got Heaven, arrivato cinque anni dopo il precedente Patience. Di hardcore punk, in Patience, c’era già poco; in I Got Heaven c’è quasi nulla. E, in tal senso, è un album quasi dolce, melodioso, placido. In una parola: indie. L’indie americano che in Europa proviamo tanto a copiare senza mai riuscirci appieno.
Le chitarre di Maxine Steen (che ha rimpiazzato Athanasios Paul, dipartito dalla band dopo Patience) sono tutt’altro che acide, anzi, piuttosto country spesso sconfinando nel pop – se non per qualche distorsione un po’ sporchina, che però non disturba – e il fattore hardcore è dato dallo scream punk di Marisa Dabice. Marisa, peraltro, in I Got Heaven, parla continuamente. E I Got Heaven è un album chiacchierone, fatto di asserzioni totalmente personali e spesso randomiche – la lirica della slice of life che tanto funziona nell’urban –, talvolta sussurrate – come in Loud Bark -, a volte abbaiate, come nella title track. Il tema del cane pare permeare l’intero lavoro: l’amore ossessivo, totalizzante, che un cane prova per il proprio padrone – e che diviene struggimento in sua assenza, uggiolio, disperazione, orecchie abbassate. Che si trasforma in infinito piacere con una carezza dell’amato, con una ciotola piena di croccantini, con un guinzaglio e un collare attorno al corpo per andare a fare una passeggiata.
I Got Heaven è un album sostanzialmente allegro, che sia chiaro. La bella uptempo Nothing Like è sognante, dream pop, shoegaze: descrive un album poco patinato, ma affettuoso; rozzo, ma sincero. Dolce, reale, concreto, non idealizzato. E il gradevolissimo intreccio di chitarre che sorregge la voce filtrata di Dabice rafforza ancor di più il tema dell’amore assoluto, quasi adolescenziale, e rimbombante nell’intero universo:
Oh, what’s wrong with dreaming of burning this all down?
If it’s what you want, I would give my life
Oh, what’s wrong with the little things you want?
If it’s what you want, I would give my life
I gradevolissimi start and stop di I Don’t Know You nascondono e mostrano allo stesso tempo tutta l’abilità creativa e la conoscenza di teoria musicale dei Mannequin Pussy; le linea vocale è in leggerissimo controtempo rispetto alla base, il che crea un piacevole straniamento nell’ascoltatore – I know a lot of things, but I don’t know you. Un beat che appare e scompare senza apparente logica conferisce una sensazione di non finito, ma patinato, vaporwave. Si torna al ballabile caos di inizio album con Sometimes, in cui è presente un gran lavoro di basso da parte di Colins Rigford – e la voce sublime di Dabice confeziona un piacevole brano che, però, possiede un gusto fortemente retrò. Forse, primi anni ’90. Sì. Quell’alt-rock anni ’90. Ancora, fortemente americano. Non c’è tempo per rilassarsi in I Got Heaven, e in Ok!Ok!Ok! si cambia chiave e ritmo ad ogni battuta, tuffandosi direttamente nei lavori dei Rage Against the Machine, e facendo uso di tutti gli stilemi del funk rock dei tempi andati – ossia, di quando, Dabice e soci erano poco più che decenni. Tell me Softly, brano successivo, gode di un eccellente songwriting, accelerando su ogni stanza – amore forzato e che non ammette ribellione – e, infine, rallentando sulla delicata, sottotono, rivoluzione, a quell’amore non onesto, ma indotto. La furia espressa in Of Her è in delizioso contrasto col tema trattato, ossia l’amore totalizzante della madre di Dabice verso sua figlia, e la profonda gratitudine di quest’ultima verso la figura materna, che ha svolto ruolo di madre e padre, di confessore e di castigatore; efficace ribaltamento di uno stilema punk – il canto di qualcosa di bello, ma in nera rabbia. Aching, penultimo brano di I Got Heaven, continua sulla stessa falsariga. L’amore, dunque, da divertissment romantico nella prima parte dell’album, diviene una pentola a pressione piena di fagioli – pronta ad esplodere.
I Got Heaven si chiude con la bella Split me Open: tranquilla, solo chitarra, basso, pad e voce, fornisce la chiusura della parabola lirica dell’amore secondo i Mannequin Pussy; ora, l’amante, il cane in perenne, devota, attesa, del padrone, realizza la propria individualità, corporalità; prende coscienza dei propri bisogni. Chiede tempo, e, come in un film dell’orrore, pretende la summa del terrore in una relazione monogama: ha bisogno di una pausa, dice. Ha bisogno di spazio, dice.
Incredibilmente, I Got Heaven è un omaggio al passato. Fa sua una poetica canina, d’amore totalizzante eppure vagamente rancoroso, puro pur nella sua macchiolina nera nello Yang; allo stesso tempo, musicalmente, vi inserisce elementi di un’epoca che, forse, nella mente dei Mannequin Pussy, era più pura, meno artificiosa, più onesta. Perché, in I Got Heaven, l’amore è onestà, così come lo è la musica in esso espressa. Più indie che punk, dubito che riuscirà ad accontentare tutti. Di certo, I Got Heaven amplierà gli orizzonti dei Mannequin Pussy, e li porterà, in futuro, verso un nuovo percorso espressivo.
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