Chi l’avrebbe mai detto che la rivoluzione sarebbe passata da Sanremo?
La vittoria dei Maneskin è la vittoria di una generazione che fatica a raccontarsi ed emergere, continuamente strumentalizzata e sottopagata, fraintesa dagli “adulti” e messa da parte dai “professionisti”, spesso accusata di qualunquismo, fotografata come impreparata, debole e annoiata. Una generazione che ha tanto da dire e che può “fare questo salto anche se la strada è in salita”.
I Maneskin sono i vincitori della settantunesima edizione del Festival di Sanremo. Un’edizione storica e profondamente difficile per il contesto in cui si è realizzato. Un’annata atipica, “fuori di testa” e dagli schemi, ma a modo suo potente, che scuote il carrozzone musicale nazional-popolare dall’interno, pur rispettandone tutte le regole prestabilite. Una platea orfana del glamour, degli smoking e degli abiti da sera; insomma, di quel lusso, un po’ pacchiano a dir la verità, spesso oggetto di satira delle commedie italiane. Un’edizione social, e quindi giovane, che consegna la palla al pubblico da casa seduto in poltrona piuttosto che ai cravattoni che hanno riempito – e continueranno a farlo nei secoli dei secoli amen – il teatro Ariston.
L’urlo di una generazione arriva da un gruppo rock: quello che avrebbe scomposto e, sicuramente, indignato la platea sanremese; quello giovane nato nei primi anni del nuovo millennio; quello con una donna che suona il basso e co-firma il brano; quello che non si piega ad un sistema lento e vecchio; quello che vuole rompere le regole del gioco; quello che ha “visto sale poi lacrime”; quello che vuole prendere le redini della propria esistenza; quello che urla che “la gente parla ma non sa di che cazzo parla” e che la diversità è un valore aggiunto e che “sono fuori di testa ma diverso da loro”.
Quella dei Maneskin è la rivincita di una generazione – la nostra – stanca di essere snobbata e derisa.
Stufa di essere il simbolo di un’incognita matematica, arrogante e criticante, considerata un esercito di manichini prescritti e nullafacenti. Lo loro voce, piena di ribellione e priva di dogmatismi, è la nostra. Perché è vero che nel “cammin di nostra vita” ci siamo imbattuti in quello strano senso di smarrimento, ma è vero anche che per molti di noi lo smarrimento si è trasformato in una fonte d’ispirazione.
Adesso abbiamo il potere di definirci, con la lucidità del senno di poi, la generazione dinamica e inclusiva. Quella che non si è arresa al massacro del post-Genova 2001, macellata dalle battaglie sulla scuola e l’università pubblica; flagellata dalle riforme sul lavoro e dalla crisi; inferocita dalla pandemia che ha fatto indossare le maschere della solitudine, dove il cinismo è all’ordine del giorno e l’indifferenza sociale è una pratica virtuosa.
Esiste in Italia una generazione che non si arrende, che non vuole morire democristiana.
Perdonatemi questo flusso di coscienza. E come ha detto la mia socia, collega e amica: “adesso potete tutti tornare a fare i virologi amatoriali certificati che il web ne ha sentito la mancanza”. Ci vediamo l’anno prossimo!
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1 commento su “Maneskin come manifesto del cambiamento. Forse non moriremo democristiani”
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