“The Mandrake Project”: l’immaginario occulto di Bruce Dickinson [Recensione]

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The Mandrake Project è il nuovo album solista di Bruce Dickinson, uscito il 1 marzo per BMG records.

Essere il frontman di una delle band più influenti dell’heavy metal è una grossa responsabilità ed è impossibile scrollarsi di dosso le aspettative, soprattutto quando il tuo nome è Bruce Dickinson, uomo di natura instancabile e irrequieto.


Tale consapevolezza, unita alla gelosia di Harris che vedeva nel progetto da solista una
sorta di tradimento nei confronti della band, sono le motivazioni che spinsero il cantante
inglese nel 1993, dopo l’uscita di Fear of The Dark, ad allontanarsi dagli Iron Maiden,
lasciando delusi milioni di fan in tutto il mondo. Però come ogni storia d’amore a lieto fine che si rispetti piuttosto che tentare di cambiarsi si è finiti per accettarsi, tantoché nel 1999, pregato dallo stesso Harris, Bruce torna nella band che lo aveva reso celebre mettendo in pausa, nel 2005 dopo l’uscita di “Tyranny of Souls, il suo progetto personale. Una pausa durata molto più del previsto poiché oltre ai suoi svariati impegni il cantante britannico ha dovuto fare i conti anche con un tumore alla lingua.

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Così, nonostante l’impegno con il “The Future Past Tour” per pubblicizzare l’ultimo lavoro
in studio degli Iron Maiden (Senjutsu, 2021) Bruce Dickinson è riuscito a ritagliarsi del
tempo per riprendere quello che aveva interrotto 19 anni fa: lo scorso primo marzo è stato
pubblicato “The Mandrake Project”. Le aspettative dei fan erano alle stelle, così come la paura che il cantante potesse scrivere un prodotto che fosse una sorta di copia di Senjutsu o di un qualsiasi altro album della band inglese. Però le aspettative non sono state deluse: per quanto possano esserci richiami alla discografia dei Maiden (la sesta traccia dell’album “Eternity Has Failed” è una risposta a “If Eternity Should Fail” di “The Book of Souls” del 2015) l’album di Dickinson presenta una struttura più robusta, una narrativa – punto di forza del cantante – che scorre meglio ed una varietà maggiore di timbri e sonorità rispetto ai lavori precedenti della band di Harris.

The Mandrake Project non si propone di espandere i confini attuali dell’heavy metal ma di essere un
puro esercizio di stile da parte di un artista che, oltre ai suoi 45 anni di carriera, ha
dato già tutto quello che poteva a questo genere. A questo scopo non poteva non scegliere come collaboratore Roy Z, musicista e produttore che oltre ad aver già composto con Bruce può vantare di essere stato uno degli artefici della rivoluzione del metal, lavorando, tra i tanti, anche con il “Metal God” Rob Halford. A completare la formazione Bruce ha scelto di affidarsi, nuovamente a Dave Moreno, per le parti percussive e ritmiche, e al tastierista italiano Giuseppe Iampieri, in arte “Mistheria”.

Con queste premesse, “Afterglow of Ragnarok” è la prima di dieci tappe del viaggio di un uomo di scienza che fatica a trovare la propria identità e finisce per sfidare Dio:attraverso l’alchimia e l’occulto deve ottenere l’immortalità – gli stessi temi affrontati anche nella serie di graphic novel in 12 numeri (ancora in uscita) ideata dal cantante stesso.

Quello che traspare da queste 10 tracce, che non sempre seguono la classica struttura
“intro-strofa-ritornello”, è proprio quella voglia di rompere gli schemi classici del metal
e di voler comporre musica: per la maggior parte dei brani si tratta, per l’appunto, di
Composizioni heavy metal.La stessa struttura dell’album lascia trasparire quella sensazione di voler dare un tocco teatrale, al punto da arrivare a pensare che il cantante abbia concepito questo lavoro come una sorta di opera lirica.Questa sensazione viene confermata proprio dall’ultima traccia “Sonata (Immortal Beloved)” dove tenta di unire la struttura di una canzone “pop” alla forma di una sonata a tre tempi. Per raggiungere questo scopo, però, è stata fondamentale anche la scelta di differenziare, anche di molto, le timbriche di ogni traccia; per questo motivo troviamo le più disparate variazioni: dal power metal di “Fingers in the Wounds” all’acustico di “Face in the Mirror”; dalle linee di basso che pesano come un macigno di “Mistress of Mercy” alle atmosfere di “Resurrection Men” che richiamano, neanche troppo velatamente, lo stile western. Degna di nota è anche “Rain on the Graves”, tappa fondamentale di questo viaggio che mette il protagonista di fronte alla consapevolezza di sé stesso e traccia ispirata dalla tomba di William Wordsworth.

Pur offrendo una performance che solo un cantante di questa portata potrebbe, l’unica nota negativa di The Mandrake Project forse è proprio la prestazione vocale di Dickinson: nonostante la riabilitazione e la tanta cura che ha sempre prestato alle corde vocali, era ormai chiaro che la sua voce non sarebbe stata più quella di “Eternal”, soprattutto dopo il tumore che ha sconfitto, e l’età, purtroppo, di certo non è dalla sua parte.

The Mandrake Project si tratta, dunque, di un album che richiede più di un ascolto per essere capito, ma una volta che ci si lascia coinvolgere dalle idee del cantante inglese non si può non riconoscere il genio di Bruce Dickinson.

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