Voivod, Synchro Anarchy: recensione

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Il futuro è qui. L’11 febbraio è giunto nei negozi e sulle principali piattaforme digitali il nuovo album dei Voivod, Synchro Anarchy, per Century Media Records.

A nemmeno quattro anni da The Wake (2018), la band canadese aggiunge un ulteriore tassello all’evoluzione del proprio sound, cercando di spingersi, come ogni volta, un passetto al di là della frontiera. Band tradizionalmente refrattaria alle mode, in grado di sviluppare un discorso musicale estremamente distintivo e riconoscibile, i Voivod scelgono con Synchro Anarchy di restare essenzialmente sul medesimo territorio musicale esplorato nel 2018. E qui bisogna usare cautela, perché per un gruppo come loro le prevedibili etichette che potremmo spendere, e spenderemo, per descrivere la musica dei Voivod hanno più che in altri casi l’effetto di impoverirne la ricchezza. Togliamoci allora il dente: quello dei Voivod in Synchro Anarchy è un progressive metal che conserva le radici thrash della band, anzitutto nell’approccio al riff di Daniel Mongrain, facendo largo uso di dissonanze e di inserti in senso lato “psichedelici” – insoliti per il thrash metal – e di un piglio armonico che deriva dal jazz ma di cui, d’altronde, si travisano gli intenti originari.

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Tutto a posto, insomma? Nient’affatto, perché il sound dei Voivod è anche stavolta troppo ricco, imprevedibile, carico di sfumature e articolato per essere ingabbiato da una qualsiasi descrizione, per quanto corretta. Ha dichiarato il batterista Michel “Away” Langevin, autore tra le altre cose dell’artwork, che l’album è “un vero sforzo di collaborazione” che condensa “innumerevoli ore di scrittura, demo, registrazione, mixaggio”. “Sentiamo che il sound e la musica sono al 100% Voivod”. Su questo non ci piove.

Ma parlare di un sound 100% Voivod significa fare riferimento a un approccio alla musica che negli anni ha saputo rinnovarsi, evolvere, sperimentare, rischiare. Il sound di Synchro Anarchy è ricco di richiami al passato: al periodo più thrash, a quello prog-tech, a quello meno sperimentale, ecc. Ma il dosaggio specifico di quelle tradizioni all’interno di questi nove brani ne fa un lavoro unico e senza precedenti.

Diamo uno sguardo ai brani. “Paranormalium” proietta immediatamente l’ascoltatore all’interno del classico immaginario dei Voivod: tech-futuristico, fantascientifico, distopico. Un immaginario che i Voivod sanno ormai dipingere alla perfezione attraverso ritmiche contorte, riff spezzati, dissonanze e non-melodie. Da segnalare il brano per una chiusura che rasenta il jazz. “Synchro Anarchy”, la title track, ha un andamento più insistente, la chitarra defnisce uno spazio armonico, ma gli scenari cambiano sistematicamente alternando diversi episodi: un vero e proprio storytelling che deriva dal lato più prog della band.

“Planet Eaters”, aperta da un riff ruvido e disarticolato, alterna momenti più dissonanti e “spastici” ad altri più marziali, esibendo un solo di chitarra che testimonia la passione di Mongrain per Allan Holdsworth. “Mind Clock” esibisce il consueto canovaccio, con un inizio ondulatorio, e in crescendo, che dà infine il là a un riff più marziale che riporta i Voivod alle loro radici thrash più profonde, prima di aprirsi alle consuete narrazioni prog-tech-futuristiche.

Voivod, Synchro Anarchy: recensione 1

Se la successiva “Sleeves Off” si contraddistingue per un piglio “punk” e per un ottimo assolo di chitarra condito dall’uso del wah-wah, la successiva “Holographic Thinking” porta all’orecchio dell’ascoltatore nuove dissonanze e asperità, senza aggiungere molto a quanto detto sino a quel punto. Con “The World Today”, che si apre con ruvide note di basso, i Voivod mostrano di poter coniugare un ritmo più lineare con una visione “progressiva” degna dei King Crimson.

Le smitragliate iniziali di “Quest for Nothing” sono susseguite da fraseggi chitarristici che simulano un inseguimento. Musicalmente parlando, ci risulta difficile concordare con il titolo della canzone e ritenere che la ricerca si risolva davvero in un nulla di fatto. Gli ultimi due minuti del brano, uniti alle progressioni armoniche della successiva “Memory Failure”, sono l’epitome del rapporto dei Voivod con l’armonia (dilaniata) e la melodia (spezzata), non solo in questo brano ma in tutta la loro carriera.

I fan di lungo corso dei Voivod possono precipitarsi nei negozi, se non l’hanno già fatto, ad aggiudicarsi il nuovo lavoro, perché c’è da aspettarsi che non ne resteranno delusi. Chi ha meno familiarità con un sound del tutto privo di paragoni – la sola somiglianza che viene in mente al sottoscritto è con i connazionali Vektor – potrebbe persino utilizzare quest’album come porta d’ingresso per una delle carriere più incredibili, e sottostimate, della storia dell’heavy metal.

Federico Morganti
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