Banefyre è il nuovo album dei Crippled Black Phoenix, uscito il 9 settembre per Seasons of Mist, e che conta più di un’ora e mezza di musica originale.
Una fenice azzoppata. Un piccolo uccello storpio. È una creatura nerastra, ancora sporca della sua stessa polvere, da cui è sì, rinata, ma malconcia, incompleta, sofferente. Come quella dipinta da Neil Gaiman, in un volume del suo acclamatissimo Sandman. Quella nata da un uovo scuro, nata già sporca.
L’avventura dei Crippled Black Phoenix, band inglese, è iniziata nel lontano 2004 e non ha subito rallentamenti, né tantomeno ha necessitato di rinascere dalle proprie ceneri: nonostante il tiepido inizio con A Love of Shared Disasters, The Resurrectionist/The Night Rider fu già osannato dalla critica. Con il recente Banefyre, i Crippled Black Phoenix non hanno deviato dal precedente Ellengæst – che, però, possedeva una certa vena catchy e pop in Cry of Love – mantenendo un tono oscuro, ma energico – come una fenice oscura.
Banefyre si nutre di un fango sporco ma nutriente, ruvido come pelle di squalo, e riverbera come cicale lontane di notte. La produzione di Justin Greaves si fa, stavolta, narrativa; Banefyre è sì un album, ma è più di tutto una storia – dei tanti, dimenticati, “differenti” della società. Nella cover, che è un ricordo dei Mangiatori di Patate Vangoghiani, c’è tutto il concept di Banefyre: topi, che al posto di salami, hanno appeso arti umani a ganci da macellaio. Cosa potrebbero fare gli animali – quei dimenticati, che per eoni non sono stati considerati umani; streghe, deformi, omosessuali, malati mentali – se solo fossero liberi ed intelligenti?
Così la opener Wyches And Basterdz, dopo l’accorato manifesto programmatico di Banefyre, Incantation for the Different, nella voce di Belinda Kordic, elogia una strega, che preferisce spendere il proprio tempo coi lupi, che coi propri simili, in una cavalcata post rock che sa di Sister of Mercy ma anche di Solstafìr, curatissima nei synth che fanno da contrappunto all’estensivo, inquietante dubbing – una strega che sussurra dall’inferno, artigli pronti a ghermire Hansel e Gretel. I cori da banshee sul finale guidano a Ghostland, che si nutre della nuova musica colta pan-europea riscoperta/inventata dai Wardruna, da Myrkur e dagli Heilung: una litania stregata di voci femminili e infantili si innalza, su un tappeto di chitarre sporche e basso gorgogliante.
Uno dei valori di Banefyre è la sua varietà. La doppietta ricaricata durante una palese caccia all’anatra – orgoglio della famiglia regnante inglese – è all’inizio di The Reckoning, dalla voce rude e virile di Joel Segerstedt. Un momento necessario, di pausa: il brano, che è sostenuto da un gran lavoro di percussioni, e da un’eccellente e pulita linea melodica – ricchissima fra ottoni e strumenti elettronici, chitarre e synth, con un cello a condire il tutto – risulta fra i più catchy della band stessa.
‘Nature is evil’, Mister Herzog said
And I think he might be right… and wrong
‘Cause everything would be in balance
If it wasn’t for humankind
Fra citazioni a Herzog ed echi di leopardiana memoria, l’analogia con l’intrinseca crudeltà delle bestie tout court è portata avanti in Banefyre; il nostro è un regno destinato a crollare. Quello dei molti, dei normali, dei giusti.
La successiva Bonefyre si trascina maestosa come un brano dei The Birthday Massacre, e prelude alla prima suite di Bonefyre: Rose of Jericho, che inizia come un brano dei Mogwai, un semplice arpeggio di chitarra a cui si aggiungono man mano piano, basso e così via – qualcosa di cui i fratelli Cavanagh degli Anathema sarebbero molto fieri; ma essa si sviluppa come una colonna sonora, una Ecstasy of Gold dark rock. Nel secondo movimento di Rose of Jericho si torna a quanto già espresso in The Reckoning, ed essa sembra esserne quasi un corollario.
Con Blackout77 si introduce, invece, una vena Carpenteriana – la Cosa, Distretto 13 – che stupisce fin tanto che non si comprende l’effettiva americanità del pezzo: esso tratta del grande blackout del 1977 che avvenne a New York; oscura, fra synth e chitarre, essa scava nel buio trapuntato di quella notte – che si riempì di Jokers, di sovversivi, di anarchici.
Seconda suite di Banefyre è Down the Rabbit Hole. Il tema, estremamente abusato, del viaggio in Alice nel Paese delle Meraviglie, risulta in un brano che suona come inutile riempitivo, in quanto non aggiunge nulla – se non interessantissime linee vocali di Belinda Kordic e un interessante arpeggio ripreso da un coro virile ben oltre metà brano – a quanto già detto; si passa poi al mesto Everything is Beautiful but Us. Chitarre distorte ed una linea melodica post rock introducono il brano, ancora cantato dalla Kordic, che si cala di nuovo nel ruolo della strega ammaliante, e risulta essere estremamente catchy: la Cry of Love di Banefyre, ed effettivamente estratta come singolo. The Pilgrim, enorme e spaziale, ricorda esperiemnti shoegaze e God is An Astronaut, mentre I’m Ok, just not Alright, possiede un attimo simile a quello di The Reckoning – uno stacco narrativo; una donna che piange disperatamente, mentre in sottofondo suoni gioiosi di giostra si fanno sempre più distanti, inquietanti, sino a sparire. La voce della Kordic mantiene quel tono, di profonda desolazione e disperazione, che è tipico dell’anima sofferente di chi soffre di una malattia mentale non riconosciuta, non curata, per cui non si è considerati al pari degli altri, i buoni: si è pazzi, subumani, bestie.
Nonostante quanto già espresso, la gemma di Banefyre è la sua penultima canzone, The Scene is a False Prophet, che fa sua la melodia di The sound of silence di Simon and Garfunkel e la trasforma a cosa nuova, la cita, ne fa esposizione museale; la seconda parte del brano, invece, dopo un ottimo lavoro di soundscaping che crea una metropolitana di suoni, di distorsioni, di false sirene della polizia, di sferragliamenti, prende un ritmo ben noto: quello di The Phantom of The Opera, la scala discendente della famosa title track del musical di Broadway. Per un intenso, infinito, epico, cyperpunk finale.
A chiudere Banefyre c’è No Regrets, brano che, mi permettano i fan, risulta inutilmente aggressivo e ridondante: la disperata The Scene is a False Prophet sarebbe stata un’eccellente chiusura. Ma No regrets renderà ottimamente dal vivo, col suo scream emocore/death e le percussioni sincopate.
Il viaggio emotivo di Banefyre è sicuramente d’impatto: alcuni brani resteranno dei classici dei Crippled Black Phoenix, che sembrano essere stati in particolare estasi creativa durante la sua composizione. In questo caso, contrariamente al precedente Ellengæst la capacità di sintesi è venuta a mancare: il labor limae. Eppure, rimane comunque un lavoro eccezionale, che si presta sia ad un ascolto attento che come soundscape di sottofondo – la componente atmosferica è infatti estremamente importante in Banefyre. Avendo mancato il tour dal vivo, attendiamo altre date per il 2023 per Graeves e soci.
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